Settimo libro di Paolo Vettori
Continua il viaggio dell’autore alla riscoperta di quei paesi che in Europa hanno maggiormente sofferto, negli ultimi decenni, di una sorta di oblio.
A condurlo verso quella zona del Baltico è stata anche la forte attrazione verso la “grande madre Russia”, là rappresentata da uno dei suoi “gioielli” più recenti, Kaliningrad, un tempo Konigsberg (capitale della Prussia Orientale e città natale di Kant) che Stalin, a guera finita, aveva voluto annettere direttamente alla Russia, anziché alla vicina Lituania, anch’essa sovietizzata.

Kaliningradscheda del libro

Titolo Kaliningrad, Danzica e dintorni - Viaggio sul confine russo-polacco
Autore Paolo Vettori
Pubblicazione 2015
Editore Edizioni Helicon
Pagine 176, brossura
Prezzo  10,00 €
ISBN 
8864662642
978-88-6466-318-0
Info Narrativa

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paolo vettori danzicaNato a Poppi il 30 Maggio 1948 e laureato in Scienze Politiche, all’Università di Pisa nel Novembre 1971, Paolo Vettori ha lavorato presso le strutture territoriali dal Ministero del Lavoro per circa 39 anni, dal 15 Novembre 1974 al 31 Maggio 2013, inizialmente come funzionario e quindi - dal 1° Gennaio 1987 sino al 31 Maggio 2013, data del pensionamento - come dirigente in varie strutture territoriali del Ministero del Lavoro, in Lombardia (Como, Sondrio, Brescia, Cremona, Mantova) in Emilia (Piacenza) e infine, dal Maggio 2000 al Maggio 2013, in qualità di direttore regionale del Lavoro della Liguria, a Genova.
Ha pubblicato le seguenti opera di narrativa: “Chopin Express - Reportage dalla Polonia” Editore Mauro Baroni, Viareggio, 1997; “L’ultima estate di pace” L’autore Libri, Firenze, 1999; “Isola Calva e dintorni – lettere dal Pianeta Giustizia” Edimet Edizioni, Brescia, 2002; “Faccia a faccia con l’ultimo sbirro di Stalin” Edizioni Albatros-Il Filo Viterbo, 2011; “Diario di un burocrate per caso” Giovane Holden Edizioni, Viareggio, 2013; “Yerevan/Stepanakert - Ai confini dell’ex impero sovietico”, Edizioni Helicon, Arezzo, 2014.

 

introduzione dell’Autore


Questi miei appunti di viaggio richiedono - credo - un paio di chiarimenti preliminari.
Il primo riguarda la ragione per la quale - nell’ambito di un testo dedicato alla regione baltica oggi divisa tra Polonia e Russia - abbia voluto inserire anche le pagine su Gorizia e Nova Gorica.
È una scelta che può apparire azzardata ma che ha una sua logica precisa, nella misura in cui tende a sottolineare il vero motivo ispiratore del libro.
Mi riferisco al tema del confine, o, per essere più precisi, dei confini scaturiti dalla Seconda Guerra Mondiale.
Alcuni non esistono più, essendo stati cancellati dall’allargamento ad est dell’Unione Europea, altri invece (come quello russo-polacco) ci riportano indietro di almeno un quarto di secolo, quando il nostro continente era attraversato, da Capo Nord sin quasi a Salonicco, da un confine ben diverso dalle normali frontiere internazionali, un confine che “si insinua tra le case e le vie, tra i campi e i giardini, tra le persone; divide il mondo in due parti, costituisce barriera e nel contempo “sfida”.
Ho voluto riportare, qua, la frase contenuta in un bel film documentario prodotto nel 2002, insieme ad un’emittente slovena, dalla Sede Regionale RAI di Trieste (“Moje Meya - Il mio confine” di Nadja Veluscek e Anja Mevdev), perché esprime alla perfezione il concetto di confine, come è stato vissuto dalla mia generazione, la “generazione della guerra fredda”, nata e cresciuta nell’immediato dopoguerra, all’ombra della “cortina di ferro” e del “Muro di Berlino”.
E tuttavia il riferimento al vecchio confine goriziano - cancellato per sempre nel 2004 con l’adesione slovena all’Unione Europea - non vuole essere semplicemente uno sguardo sulla Storia tormentata del Novecento, sul filo dei miei ricordi giovanili, ma contiene, al contrario, un messaggio di speranza ben preciso, per l’avvenire.
L’area di Gorizia-Nova Gorica è diventata infatti una vera e propria città transnazionale (la prima in Europa, insieme, forse, a Cieszyn/CeskiTesin, nella Slesia Meridionale, tra Polonia e Cechia) un unico agglomerato urbano che, pur diviso tra due Stati, si configura come una realtà sostanzialmente unitaria sotto il profilo non solo economico ma anche dei principali servizi pubblici (anzitutto sanità e trasporti).
L’auspicio è che il “miracolo” - di cui siamo stati testimoni, dopo il “secondo magico Ottantanove”
- possa ripetersi, un giorno, più ad est, con l’abbattimento delle frontiere che, ancora oggi, separano Russia e Bielorussia dal resto del continente e la creazione di un grande spazio comune, da Lisbona sino a Vladivostok.
La seconda precisazione si riferisce, invece, alla mia decisione di inserire, nel viaggio, una tappa a Szymbark e Wiezica, due paesini dell’entroterra di Danzica, che ospitano, però, alcune delle principali istituzioni culturali (l’Università Popolare ma soprattutto il CEPR, il centro di educazione e promozione della regione) impegnate a tutelare l’identità linguistica e culturale della comunità Kasciuba, sopravvissuta per secoli in una ristretta area di campagna, all’interno della Pomerania, che è riuscita ad ottenere un pieno riconoscimento solo nel 2005, grazie alla legge sulla tutela delle minoranze etniche, in base alla quale la lingua degli antichi abitanti slavi dell’estremo settentrione del Paese ha ottenuto lo status di “lingua regionale”, la sola in tutta la Polonia.
Va sottolineato che il mio interesse per quest’aspetto, all’apparenza marginale, della nuova Polonia democratica, è strettamente legato alla Storia del Paese, all’indomani della Prima Guerra Mondiale, quando lo Stato Polacco (risorto dalle ceneri dei tre grandi Imperi che, nel Settecento, avevano decretato la cancellazione della Polonia dalle carte geografiche) si era trovato a fare i conti con grosse ed agguerrite minoranze etniche, in particolare nei territori dell’Est, che la sconfitta dell’Armata Rossa nella battaglia della Vistola dell’agosto del 1920 e il successivo Trattato di Riga avevano assegnato alla Polonia, nonostante si trattasse di regioni abitate in prevalenza da Ucraini e Bielorussi. Per tutti gli anni ’20 e ’30 del secolo scorso il rapporto con le comunità ucraine e bielorusse dell’Est era stato uno dei punti deboli del rinato Stato Polacco, su cui incombeva la duplice minaccia sovietica e tedesca (in particolare dopo la salita al potere di Hitler nel gennaio del ’33).
A guerra conclusa, nella Polonia, ormai ridotta a “satellite di Mosca”, l’annosa questione delle minoranze etniche sembrava essere stata risolta alla radice, grazie al ritorno dei territori ucraini e bielorussi alle rispettive repubbliche Sovietiche e l’allontanamento in massa dei tedeschi dalle vaste aree strappate al “Reich”. Eppure l’atteggiamento del governo di Varsavia, nei confronti delle sparute minoranze etniche rimaste nel Paese, continuava ad essere profondamente negativo.
In questo contesto la legge sulla tutela delle minoranze etniche (concepita più o meno in concomitanza con l’adesione polacca all’Unione Europea) assume il significato di una rottura definitiva con il passato. Il che spiega la curiosità che mi ha spinto ad andare a verificare, in loco, l’effettivo funzionamento dei meccanismi introdotti, esattamente dieci anni fa, a tutela delle minoranze linguistiche, di cui quella kasciuba è oggi la più numerosa.

Paolo Vettori

 

prefazione di Andrea Pellegrini


Il ‘Racconto dei confini’ di Paolo Vettori Ewa, Katia, Olga, Vera, Marja, sono i nomi delle occasionali compagne di viaggio di questa nuova avventura non turistica dello scrittore e saggista Paolo Vettori.
Guide che, come innumerevoli beatrici dantesche, si aggregano alle sue trasferte illustrando cibi e scenari fra le discese nei meandri più dimenticati della regione baltica di Kaliningrad. Si avventura Vettori per mondi non turistici, annotando ogni minima interazione e tenendo sempre i dettagli della Storia e le proprie peripezie arrotolate perfettamente insieme ai pensieri, e compone questo suo nuovo portolano in due parti distinte e fondamentali. Divisa, dal confine paratestuale dei capitoli, è infatti questa un’esperienza narrativa tutta sui confini sviluppata e mossa. Dapprima il confine russo-polacco, una delle poche “frontiere stile guerra fredda” rimaste in Europa: un’intensa settimana, fra visite, incontri e curiosità di ogni sorta – è il racconto di Vettori -, vissuta proprio a cavallo di quella linea di frontiera che dalla fine della II G. M. divide la vecchia Prussia Orientale. E allora Danzica, la città dove alle 4 e 45 del 1° settembre 1939 la corazzata tedesca Schleswig-Holstein sparò la prima cannonata, instaurando de facto le ostilità che avrebbero cambiato il mondo. E di seguito i suoi dintorni, per la maggior parte degli europei sconosciuti: quindi Kaliningrad, la città di Immanuel Kant, il centro principale dell’Oblast di Kaliningrad, exclave russa tra Polonia e Lituania, con diretto accesso al Mar Baltico. “Guardando la calma piatta del paesaggio” che lo circonda, “e ripensando alla Polonia di oggi” sembra quasi impossibile a Vettori “che questi luoghi siano stati testimoni, appena sessant’anni fa, di avvenimenti tanto drammatici”. Dalla Guerra Mondiale alla Guerra Fredda senza soluzione di continuità, verrebbe da dire.
E Vettori è curioso. Non è un normale turista. Non si sofferma sulla superficie né si accontenta di una spicciola descrizione delle normali guide. Da queste parti è difficile, del resto, trovare qualcuno che conosca l’Inglese o, tanto meno, il Francese o l’Italiano. Non è facile dunque mai l’immersione che questo viaggiatore sta in effetti cercando. Vettori ha viaggiato a lungo su questi confini, sui confini orientali dell’Europa, parla un poco di Polacco, e non ha intenzione alcuna di sfiorare soltanto l’epidermide delle cose. Leggendolo, vengono in mente le parole di Paul Bowles quando diceva che “non si considerava un turista bensì un viaggiatore: dopo poche settimane, o pochi mesi, il turista si affretta a tornare a casa; il viaggiatore, che non appartiene ad alcun luogo in particolare, si sposta lentamente da un punto all’altro della terra, per anni”. E annoso è infatti il viaggiare di Vettori, come una reale missione. Durante i suoi cammini, si imbatte quindi non per caso in altri viaggiatori a lui più o meno simili, in gente del posto, in estemporanei compagni di viaggio, che trasformano di volta in volta il suo in un particolare autocostruente e reciproco baedeker, fatto di confronti storico-sociali e di un’attenzione da rivolgere affettuosamente al proprio prossimo, fra interscambi culturali, amicizie e ascolti pertanto dei più disparati fra i ciceroni - capaci di insinuare in questo viaggiatore pensieroso le più recondite sfumature dei mondi di ora in ora traversati e di suggerirgli i più smarriti risvolti di una Storia altrimenti dimenticabile e di una terra spesso dimenticata. Ecco allora, fra le miriadi di incontri, durante le trasferte in aereo, in autobus, in metro, ecco le figure femminili - esordialmente elencate poiché non meno affascinanti né di un rilievo minore nello sciogliersi che la profonda narrazione riesce a compiere. Si comincia dall’Associazione Kasciuba, a Danzica, la storica associazione che “si è battuta tenacemente per il riconoscimento dei diritti della minoranza di lingua kasciuba, ovvero i discendenti dell’antica popolazione slava di quest’area del Mar Baltico”, ed ecco che appare Ewa. E ci si confronta poi con i contrasti architettonici di Kaliningrad, al cospetto di quelle forme tipicamente sovietiche e delle vetrine ormai tutte occidentalizzate, ed ecco Katia. Come poi tutte le altre, al passare di terre e di città. Ed è così, all’interno di un panorama davvero vivo, e che rapido prende a scorrere in queste pagine fin dagli esordi, che fra paesaggi e immersioni storiografiche, fra profumi esotici e chiese ortodosse di conturbante bellezza, si instaura una serie non meno fondamentale di incontri anche umani e pertanto di una reale socievolezza, di una reale caduta di quei confini qui tanto vigilati e studiati - poiché davvero ancora presenti, sia in senso socio-politico che in senso morale. Non mancano, fra le tante avventure e gli altrettanti colloqui con le persone più diverse, certe fascinose passeggiate dell’autore tra i banchi del mercato, durante le quali egli ama scambiare battute “nel mio polacco rudimentale”, dice, “con gli uomini e le donne della campagna circostante, che lasciano all’alba i loro villaggi”. Né mancano le sperimentazioni di pietanze sconosciute, come il bortsch, “una zuppa piuttosto ricca, a base di barbabietole rosse, succo di pomodori, cipolle e cavoli”. Oppure, in questo caso suggerita da una altrettanto sconosciuta Olga, la cucina caucasica, come la vatrushka, “una torta molto gustosa, composta da un anello esterno di pasta” con ricotta e pezzetti di frutta e di uva passa. E allora il ‘Racconto dei confini’ - così si potrebbe riintitolare questo libro di Vettori - diventa nel suo defluire sempre di più il racconto dell’amicizia possibile, della socialità, dell’incontro con gli altri e con le loro tradizioni, insieme alla possibilità e anzi al dovere di custodire più a lungo possibile, e proprio grazie a tali socievolezze, un’identità e una storia, linguistica, culinaria, filosofica.
Fino poi alla seconda parte di questo libro. Un epilogo imprevisto, un viaggio ripreso: altre terre. Terre affatto diverse, anzi, per certi aspetti contrastanti e antitetiche alle prime esplorate. Dopo l’esperienza di Danzica-Kaliningrad, Vettori riparte infatti alla volta di un territorio che, scrive, “è riuscito a trasformarsi […] in una vera e propria città transnazionale, un agglomerato urbano che, seppur diviso tra due diversi Stati dell’Unione Europea, si presenta sempre più come una realtà tendenzialmente unitaria”: l’area di Gorizia-Nova Gorica.
E se “il viaggio finisce qui”, come direbbe Montale, non finisce tuttavia la speranza da parte di Vettori che il miracolo di una analoga transnazionalità “possa ripetersi, un giorno, più ad est, con l’abbattimento delle frontiere che, ancora oggi, separano Russia e Bielorussia dal resto del continente”. Ma, se fascinosissima è questa contrastante e vitale comparazione dei confini territoriali, delle identità e delle persone di questa Terra, non meno lo è l’affiorare dappertutto e continuo nel testo di parole esotiche che rendono oltremodo seducente la narrazione dall’inizio alla fine: sono, a spiccare quasi poeticamente dal libro come voci fruttate dalla fantasia, le chiese ortodosse e le scritte in cirillico, e più ancora i luoghi impronunciabili – nomi incantanti e dal carisma irresistibile -, come Baltysk, la Lenin Prospekt, la stazione balneare di Svetlogorsk, non meno di città, per noi tutti calvinamente “invisibili”, come Gdynia, Szymbark, Wiezyca o il lago Ostrzicie. “Di una città non apprezzi le sette o settantasette meraviglie”, diceva proprio Calvino, “ma la risposta che dà ad una tua domanda”. E in mezzo a donne e a città dai nomi inebrianti, fra le dogane umane e territoriali apparentemente più infrangibili, il viaggiatore Paolo Vettori ha trovato anche in questo viaggio e in questo nuovo suo libro certamente molte risposte ad altrettante domande che proprio al viaggiare devono averlo spinto da sempre come alla più sacra delle vocazioni.

Andrea Pellegrini

 

incipit


Kaliningrad/Danzica e dintorni
Viaggio al confine russo-polacco tra Storia e Attualità

Danzica, 10 Ottobre 2014

Prima giornata di questa mia “settimana baltica”, a cavallo del confine russo-polacco, quella linea di frontiera che, dalla fine della II Guerra Mondiale, taglia in due la vecchia Prussia Orientale, collegando direttamente (ma forse, oggi, sarebbe più esatto dire: “separando”) Polonia e Russia.
Sono arrivato ieri sera quasi a mezzanotte, con oltre un’ora di ritardo rispetto all’orario, con l’intercity del pomeriggio da Cracovia, per cui, stamattina, faccio fatica ad alzarmi.
I tempi in cui mi facevo, senza battere ciglio, due nottate in treno, tra Venezia e Varsavia, sono un ricordo ormai lontano.
Me la prendo quindi comoda, tanto più che il mio appuntamento con il presidente dell’Associazione Kasciuba è fissato per le 11.
Arrivo con un quarto d’ora di anticipo alla Stazione di Danzica Centrale (Gdansk Glowna) col trenino che collega tutti i quartieri di “TrojMiasto”, la città tripla o meglio la città dalle tre teste, un unico grande agglomerato urbano disteso sulle sponde della Baia di Danzica ma diviso, dal punto di vista amministrativo, nei tre Comuni di Danzica, Sopot e Gdynia.
È una bella giornata di sole, un sole di fine estate, a dispetto del calendario.
Decido perciò di farmi a piedi le poche centinaia di metri che separano la Stazione dal Palazzo della Regione (“Wojewodza” in polacco) in cui mi aspetta il mio interlocutore.
Mentre percorro gli ampi viali alberati, cerco di riordinare le idee.
L’incontro è nato quasi per caso, su iniziativa del Direttore del Museo della cultura kasciuba di Wejherowo, che ha voluto mettermi in contatto con il presidente della “Zrzeszenie Kashubsko-Pomorskie”, la storica associazione che si è battuta tenacemente per il riconoscimento dei diritti della minoranza di lingua kasciuba, ovvero i discendenti dell’antica popolazione slava di quest’area del Baltico, che, nei lunghi secoli dominati dall’aspro conflitto tra polacchi e tedeschi, è riuscita a salvaguardare la propria identità nell’entroterra, in quel piccolo ma suggestivo angolo della Pomerania, ricco di boschi e laghetti, che, da queste parti, amano chiamare “la nostra piccola Svizzera”.
Soltanto nel 2005, il “Sejm” (il Parlamento polacco), nell’approvare la legge sulla tutela delle minoranze etniche, ha riconosciuto la lingua Kasciuba come lingua regionale - l’unica in tutto il Paese - da salvaguardare con tutta una serie di misure, dall’insegnamento nelle scuole locali sino al sostegno anche finanziario alle Istituzioni ed associazioni, la cui “mission” è appunto quella di valorizzare e difendere il patrimonio culturale della regione in tutte le sue espressioni (non solo la lingua, ma anche la musica, la cucina ecc.).
Personalmente non mi era mai capitato di entrare in contatto con questa realtà, particolarmente radicata in aree circoscritte dell’entroterra, per cui ho colto al volo una tale opportunità. Arrivo all’ “Urzad Marsalkowsy”, il Palazzo della Regione, con cinque minuti di anticipo e trovo ad attendermi all’ingresso Ewa, una funzionaria che conosce abbastanza bene l’Italiano e che si è quindi prestata a fungere da interprete...

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