Quarto libro di Paolo Vettori
La storia del secondo dopoguerra nei Paesi dell'Est Europa è una storia difficile, dura, cruenta...

Faccia a faccia con l'ultimo Sbirro Di Stalin

scheda del libro

Titolo Faccia a faccia con l’ultimo sbirro di Stalin
Autore Paolo Vettori
Pubblicazione 2011
Editore Gruppo Albatros Il Filo
Pagine 74
Prezzo  13,50 €
ISBN  978-88-56742-88-6
Info Collana Nuove Voci


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Di ambientazione indiscutibilmente storico-politica, “Faccia a faccia con l’ultimo sbirro di Stalin” è il quarto lavoro scaturito dall’agile penna di Paolo Vettori. Il libro raccoglie la confessione di un uomo, il protagonista del racconto, attraverso le parole del quale l’autore fornisce un’interpretazione di molte delle pagine oscure della Storia della Polonia.

 

la trama


La Storia del secondo dopoguerra nei Paesi dell’Est Europa è una Storia difficile, dura, cruenta, segnata da dittature e rivoluzioni che hanno lasciato una impronta indelebile nel corpo e nell’anima delle popolazioni che ne hanno subito le conseguenze.

Nel 2010, in viaggio attraverso la Polonia, Paese a cui Vettori è sentimentalmente legato, quasi fosse la sua seconda casa, l’autore incontra casualmente presso uno studio veterinario l’anziano Wojciech, un polacco schivo e solitario. Colpito dal personaggio e interessato a conoscerne la storia, prova a stabilire un contatto. Dopo un primo momento di diffidenza il vecchio acconsente, di fronte a una scacchiera, a raccontare la sua travagliata vita, segnata dal sanguinoso assassinio della famiglia. barbaramente sterminata perché ebrea, e dal suo progressivo accostarsi alle idee del regime, trasformandosi nel giro dl pochi anni da vittima innocente in carnefice, “pedina dell’imponente apparato repressivo, che, negli anni dell’immediato dopoguerra, era riuscito imporre una cappa di terrore sull’intera Europa a est della cortina di ferro”. L’anziano Wojciech è dunque “l’ultimo sbirro di Stalin” e attraverso la sua voce Vettori dà una interpretazione di alcune pagine oscure della Storia della Polonia, pagine ancora oggi poco conosciute dai polacchi stessi.

 

incipit


 CAPITOLO I

Gdynia, 29 Giugno 2010

“Dzien dobry, za piec minut Gdansk Glowna”.
(“Buongiorno tra cinque minuti arriviamo nella stazione principale di Danzica”.)

La voce squillante dell’“uomo della notte” –o, più semplicemente, dell’addetto alle cuccette– mi risveglia bruscamente dal lungo sonno che mi ha accompagnato nel viaggio notturno da un capo all’altro della Polonia, da Cracovia sino a Danzica.
I miei compagni di viaggio (due simpatici giovanotti di Danzica) sono in piedi, già pronti a tornare al tran-tran di tutti i giorni, dopo una settimana di vacanze a Zakopane, la più famosa località montana del Paese, praticamente al confine con la Slovacchia.
Pochi minuti –giusto il tempo di una risciacquata veloce- e il treno si addentra lentamente nella grande e ordinata stazione, sino a fermarsi del tutto.
Mentre mi gusto, affacciato al finestrino, il via-vai dei viaggiatori, mi torna alla mente una frase famosa che circolava tra Parigi e Londra a fine agosto del ’39, alla vigilia dell’attacco tedesco contro la Polonia: “morire per Danzica?”.
“Per te, Paolo -dico, sorridendo- quella frase famosa dovrebbe essere riscritta, non più morire per Danzica, ma, se mai, morire a Danzica”.
Avverto un senso di grande familiarità e dimestichezza con questi luoghi, che sono entrati a far parte del “mio piccolo mondo” da ormai cinque anni, per la precisione da quando ho scelto l’estremo nord polacco come la mia nuova “frontiera”.
Faccio non poca fatica a tornare con la memoria a quei giorni dell’estate 2005, un’estate “rovente”, in termini non tanto meteorologici quanto piuttosto di “temperatura psichica”.
E in effetti, per me, quell’estate ha rappresentato un momento di rottura, forse irreversibile, con i luoghi dell’infanzia, la campagna attorno a Poppi, dominata dalla mole un tempo familiare del “Castello”, a cui sono legati i miei ricordi di bambino, quelli più tenaci, capaci di resistere alla legge, inesorabile, del tempo.
Si riaffaccia d’improvviso, come appena uscito da una fitta nebbia, il ricordo delle scorribande mattutine, sulla “giardinetta” di Nonno Guido, tra i poderi della zona: il Nonno, grazie anche alla sua professione di veterinario sia pure ormai in pensione, conosceva tutti i contadini e si fermava mezz’ore intere a parlare con loro, affrontando con competenza i vari problemi quotidiani, legati ad una realtà che, ai miei occhi di ragazzo di città, appariva lontanissima eppure, o forse proprio per questo, così ricca di fascino.
Poi, al ritorno in villa a Porrena, una bella merenda a base di pane e pomodoro (non a caso, il mio piatto preferito, oggi. è la “supa pomidorowa”, uno dei capisaldi della tradizione culinaria polacca, che suona però stranamente familiare, al mio palato).
E infine, la sera si andava a Poppi, nella casa estiva degli “altri nonni”.
I pochi chilometri tra Porrena e Poppi mi sembravano fatti apposta per sottolineare una sensazione che, già allora, avvertivo con chiarezza, cioè una netta separazione –per non dire una vera e propria contrapposizione, seppur non dichiarata, tra le due famiglie- quella del Babbo a Porrena e quella della Mamma (Nonna Anna, soprattutto) con cui vivevamo tutto l’anno a Pisa ma che, ad agosto, era solita soggiornare a pian terreno di un elegante palazzo settecentesco, proprio all’ingresso del Borgo in cui sono nato.
A quarant’anni di distanza, quei luoghi –a lungo relegati in un angolino della memoria- erano tornati prepotentemente d’attualità.
Con la morte del Babbo, nel febbraio 2004, era toccato a me subentrare nel possesso della villa di Porrena, la “Campaldina”, costruita alla fine degli anni ’20 dai Nonni paterni nell’omonima piana, teatro, sei secoli prima, di una battaglia campale tra fiorentini ed aretini, a cui aveva preso parte lo stesso Dante Alighieri.
All’inizio avevo accarezzato il sogno di rimettere in sesto la villa, così profondamente legata alla mia infanzia.
Quel sogno era però durato “lo spazio di un mattino”; esattamente sei mesi dopo, ero stato costretto, mio malgrado, a fare i conti con la realtà.
Era accaduto ai primi di agosto del 2004, durante un sopralluogo a Porrena, insieme a Carla, la donna che da oltre trent’anni mi è accanto “nella buona e nella cattiva sorte”, per riprendere il titolo di un libro (“Nella buona e nella cattiva sorte” – Koinè/nuove edizioni – Roma – 2005) di qualche anno fa di Stefania Craxi, che contiene una serie di ritratti di donne, tra cui Carla, che hanno vissuto sulla propria pelle la bufera del ‘92/94.
E la realtà che mi si era profilata innanzi, in quell’occasione, può essere così riassunta: il grande giardino, che ricordavo sempre curato dal buon Beppe e prima ancora da Nonno Guido, trasformato in un ammasso di sterpi, “la casina di Cecco e Rosa”, la casa colonica situata al limitare del giardino ormai ridotta a rudere pericolante (“devi recintarla immediatamente con dei cartelli di pericolo, se non vuoi correre il rischio di dover rispondere per danni”, mi aveva raccomandato Carla).
Ma anche i due piani della villa e la mansarda non stavano, poi, tanto meglio.
Il salone a pian terreno (“il salotto buono”di Nonna Ester, un tempo uno dei salotti più eleganti e meglio frequentati di tutto il Casentino) appariva completamente spoglio.
Non solo erano spariti i mobili scuri in legno massiccio che Nonno Guido aveva acquistato nel ’30 da uno dei migliori artigiani di Arezzo, ma era scomparso perfino il ritratto di Nonna Sandrina, la mamma di Guido, che per decenni aveva accolto, con la sua sobria eleganza, gli ospiti.
Soltanto i mobili della cucina e un paio di letti sgangherati, al piano di sopra, erano rimasti al loro posto. Per non parlare dello stato dei bagni e dell’impianto di riscaldamento.
“Tutto da rifare” per parafrasare il grande Gino Bartali.
Carla, vedendo il mio sconforto, cercava di rincuorarmi.
“Vedrai che ce la faremo anche stavolta –mi sussurrava- certo, ci vorranno parecchi soldi, soprattutto per rifare i bagni e l’impianto di riscaldamento; ma possiamo sempre chiedere un mutuo”.
Tornai a Brescia rinfrancato dalle parole di Carla, ma, col trascorrere delle settimane, avvertivo chiaramente il peso di un impegno finanziario non indifferente, tanto più che eravamo appena usciti da anni difficilissimi sotto tutti i profili, non ultimo quello economico.
E così, dentro di me, andava maturando pian piano, non senza tentennamenti, la decisione di vendere per ricostruire una nuova “Campaldina” nel NordEuropa .
A giugno dell’anno successivo –neanche due mesi dopo aver firmato il compromesso di vendita con Massai, un dinamico casentinese che aveva fatto fortuna oltre gli Appennini, tra l’Emilia e la Lombardia- ero già in Polonia, alla ricerca di buone opportunità di investimento.
Al di là del valore affettivo della “casa del Nonno” –che rendeva così dolorosa la scelta che mi ero trovato a dover fare- avvertivo una grossa responsabilità nei confronti di mio figlio Cristoforo, a cui quei beni di famiglia sarebbero stati destinati.
Di qui la decisione di reinvestre “i soldi di Porrena” nell’acquisto di una nuova dimora, magari meno imponente ma commercialmente altrettanto valida, se non di più.
Sin dall’inizio, la mia ricerca si era orientata verso due zone ben precise, entrambe sul Mar Baltico: l’area di Stettino, al confine con la Germania, e, ad est, Danzica e il suo agglomerato urbano, che i polacchi chiamano “Trojmiasto”, letteralmente città tripla, in quanto ne fanno parte tre diverse città, ovvero Gdynia, sorta praticamente dal nulla negli anni ’20 come porto del rinato stato polacco, Sopot, meglio conosciuta come la “Rimini del Baltico”, e infine Danzica, la storica città portuale, per secoli pomo della discordia tra polacchi e tedeschi.
Sul piano economico, non c’è dubbio che la scelta avrebbe dovuto cadere su Stettino, che, grazie alla vicinanza con la Germania, e con Berlino in particolare, ha conosciuto, a partire dagli anni ’90, un eccezionale sviluppo, al punto che, secondo alcuni, avrebbe soppiantato perfino Rostok nel ruolo di porto naturale della capitale tedesca.
Ma io, al pari del Nonno del resto, non sono mai stato un uomo d’affari, sicchè mi sono lasciato guidare soprattutto dalla grande passione per la Storia, coltivata, seppur in modo discontinuo, sin da quando ero sui banchi delle “Elementari” a Pisa, a due passi da Piazza dei Cavalieri, sulla stessa strada su cui si affaccia il Palazzo della “Sapienza”, dove avrei poi frequentato l’Università (all’epoca, “Scienze politiche” non aveva ancora una propria sede).
E appunto la passione per la Storia, che dentro di me si è sempre coniugata con un altrettanto forte interesse per i luoghi testimoni dei grandi avvenimenti storici, mi ha portato verso Danzica, per secoli punto d’incontro (e scontro, ovviamente) tra polacchi, tedeschi, svedesi, russi, olandesi ma anche luogo simbolo della travagliata Storia del Novecento in due passaggi cruciali: lo scoppio della II Guerra Mondiale, il 1° Settembre del ’39, e, quarant’anni dopo, la nascita di Solidarnosc, momento nodale di quel complesso processo storico che, un decennio più tardi, avrebbe portato all’implosione dell’impero sovietico.
A condurmi verso questa zona del Baltico è stata anche l’attrazione, per me certo non nuova, verso la “grande madre Russia”, qua rappresentata da uno dei suoi “gioielli” più recenti, Kaliningrad,un tempo Konigsberg (capitale della Prussica Orientale e città natale di Kant) che Stalin, a guera finita, aveva voluto annettere direttamente alla Russia, anziché alla vicina Lituania, anch’essa sovietizzata.
E così, per uno scherzo della Storia, la città di Kant è diventata un’enclave russa all’interno dell’Unione Europea –Lituania, a nord e ad est, Polonia a sud- o meglio un avamposto della potenza militare di Mosca, visto che ospita la flotta russa del Baltico (nugoli di ragazzini chiassosi con addosso l’uniforme della Marina Russa: è questa la sola immagine ancora nitida, nella memoria, di una rapida escursione oltrefrontiera, in una fresca domenica di settembre del 2005).
A pensarci bene, è proprio il carattere di “terra di frontiera” di questa regione –per secoli frontiera tra tedeschi e polacchi, luterani e cattolici ,oggi, invece, frontiera europea verso la Russia- ad esercitare sopra di me un fascino irresistibile.
Come se la mia vocazione di “uomo di frontiera” trovasse proprio qua, a migliaia di chilometri dal paese natìo, il proprio “habitat” naturale.
Sporgendomi dal finestrino, mi accorgo che –mentre ero tutto preso a ripensare alla mia “calda estate del 2005”- il treno aveva ripreso lentamente la propria corsa, in un paesaggio urbano dominato dagli orrendi palazzi-dormitorio dell’epoca comunista, un’eredità comune a tutto l’Est Europeo, da Danzica sino a Varna, sul Mar Nero.
Pochi minuti ed ecco Oliwa, un tempo famosa per il monumentale complesso dei monaci cistercensi, dominato dalla Cattedrale, che custodisce, ancora oggi, il prezioso organo, miracolosamente scampato alle devastazioni dell’ultimo conflitto mondiale.
Oggi, però, Oliwa –sobborgo di Danzica, ad un tiro di schioppo dalle spiaggette di Sopot- è famosa, almeno in Polonia, soprattutto perché da queste parti abita Lech Walesa.
Ancora un richiamo alla Storia del Novecento! (“Danzica avrebbe ottime chances di vincere il titolo di città-simbolo del Novecento, se qualcuno dovesse decidersi, un giorno o l’altro, ad organizzare una simile gara” mi aveva detto, lo scorso anno, un simpatico professore di Storia, non più giovanissimo).
E tuttavia Walesa, per i polacchi, non incarna soltanto una pagina di Storia di cui vanno particolarmente orgogliosi, ma è anche una figura familiare, che, grazie alla televisione, entra spesso nelle loro case, essendo ospite fisso dei vari talk-show della TV di Varsavia, specie quando si tratta di commentare i grandi avvenimenti dell’attualità interna ed internazionale.
Qua a Danzica, poi, l’immagine del leader di Solidarnosc –ringiovanita di trent’anni, ai tempi gloriosi degli scioperi dell’agosto 1980– la trovi dappertutto, negli ex Cantieri Lenin, oggi Museo di Solidarnosc, come anche in Aereoporto, che, non a caso, porta il suo nome (è forse uno dei pochi Scali al Mondo, e certamente l’unico in Europa, intitolato ad una personalità ancora in vita).
Ricordo quando mi è capitato di fermarmi al Ristorante dell’Aereoporto: nel menù c’era una pagina, con firma autografa di Lech Walesa, che riportava i suoi piatti preferiti, tutti rigorosamente ispirati alla tradizione gastronomica polacca.
Intanto, quasi senza accorgermene, mi ritrovo alla Stazione di “Gdynia Glowna”, meta del mio viaggio notturno dal Sud al Nord del Paese.
Rimango qualche istante fermo sul binario ad osservare il treno che ha ripreso la corsa...

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