“Verso Mosca sull'Ambra Express” è il titolo proposto da chi scrive per questa anteprima del prossimo libro di Paolo Vettori, in uscita a fine luglio 2016, dal titolo “Dante sulle rive della Moscova” - sottotitolo “Viaggio tra gli ambasciatori della cultura italiana a Mosca e altri itinerari tra Moscova e Vistola”.

Come per le pubblicazioni precedenti, sin dalle prime pagine del saggio trapela la zelante curiosità di uno studioso profondamente affascinato dalla cultura, dalle tradizioni e dalle vicissitudini storiche dei popoli dell'Est europeo. Paolo Vettori si avventura per mondi non del tutto "turistici", proponendosi di catturare anche il più piccolo dettaglio della Storia di quei luoghi, al fine di svelare quel mondo, non del tutto ostico e inaccettabile, così come ci è stato raccontato nei libri scolastici.

Pascal McLee


Kaliningrad/Mosca, 24-25 Aprile 2016

Il trillo del telefono mi distoglie dal lungo sonno ristoratore che mi sono concesso, dopo le fatiche di ieri tra Danzica e Kaliningrad.

“Good morning, Sir, eight o’ clock”.

Rimango sorpreso ogni volta nel constatare che, negli alberghi di stampo sovietico disseminati nella provincia russa, a dare la sveglia sia ancora la viva voce di una dolce fanciulla e non una voce metallica, registrata, come accade invece da noi.

Mancano quasi cinque ore alla partenza per Mosca, per cui decido di prendermela comoda.

Mi lavo, poi accendo la tv per ascoltare i canali russi (anche se la mia scarsa conoscenza della lingua non mi consente certo di capire tutto) e qualche minuto prima delle dieci scendo a far colazione nella sala accanto alla “reception”.

Mentre sparecchio, con la consueta voracità, i pochi piatti ancora esposti sul bancone (“è il destino dei ritardatari doversi accontentare di quel che rimane”, mi dico, sorridendo), comincio a prepararmi mentalmente al viaggio sul treno che, ogni giorno, collega questa piccola “exclave” russa, schiacciata tra Polonia e Lituania ma protesa verso il Baltico, con la capitale dell’impero di Putin.

Sul sito delle Ferrovie russe questo treno è ufficialmente denominato “iantar”, che in italiano può essere tradotto “ambra” o meglio “Ambra Express”.

Si tratta di un viaggio da me a lungo preparato (avrei dovuto farlo già lo scorso ottobre, ma poi è saltato all’ultimo momento) e atteso con trepidazione, perché mi offre l’opportunità di condividere con i russi un’intera giornata di viaggio (venti ore, per l’esattezza) su uno dei tanti convogli ferroviari che percorrono quotidianamente migliaia di chilometri per collegare le diverse regioni di questo sterminato Paese con la capitale.

Nel caso dell’Ambra Express, il tragitto supera di poco i mille chilometri, oltre la metà dei quali in territori dell’ex Unione Sovietica, appartenenti oggi ad altri Stati (Lituania e Bielorussia). Il che costituisce, ai miei occhi, un ulteriore motivo di interesse.

Alle undici in punto, lascio in taxi l’albergo, diretto alla Stazione Centrale di Kaliningrad.

Il tassista è un uomo di mezza età, completamente calvo, curioso come una vecchia comare.

“Adkuda?” (Da dove viene?), mi chiede.

“Italia”, rispondo seccamente.

La conversazione finisce qua, perché lui parla solo russo, mentre io (che pure qualche parola nella sua lingua riesco bene o male a masticarla) mi diverto un mondo a vederlo friggere dalla curiosità.

“Vot Vocsal” (Ecco la Stazione).

Pago la corsa e mi fermo ad ammirare lo stile – vagamente marziale, ma non privo di una sua eleganza e comunque ben lontano dall’imponenza dell’epoca staliniana – di questa costruzione, che risale, con tutta probabilità, agli anni ‘50/’60 del secolo scorso.

Sulla torretta collocata al centro dell’edificio, interamente colorato in un bel marroncino scuro, spiccano ancora oggi, scolpiti nella pietra, i simboli dell’iconografia sovietica: bandiera rossa, falce e martello, sol dell’avvenire.

Subito sotto, l’orologio segna l’ora di Mosca (un’ora avanti rispetto all’ora locale).

Varco il pesante portone d’ingresso, per mettermi in coda anch’io, sotto lo sguardo vigile di una folta squadra di poliziotti e guardie giurate, per il controllo di sicurezza, che qua in Russia è necessario per accedere non solo agli aeroporti ma anche alle stazioni ferroviarie e ai principali edifici pubblici.

Superato il controllo, posso finalmente dirigermi verso la biglietteria, dove una lunga coda, composta in prevalenza di donne più o meno anziane, aspetta pazientemente il proprio turno, mentre un nugolo di ragazzini scorrazza indisturbato nell’ampio salone.

Mi sembra di essere tornato ai primi anni ’70, gli anni della mia giovinezza, quando bazzicavo le stazioni ferroviarie dell’Est Europeo, tra Polonia e Ungheria.

Nel frattempo è arrivato il mio turno, per cui debbo affidarmi alle mie elementari conoscenze della lingua per chiedere un biglietto di seconda classe per Mosca sull’Ambra Express.

“Platzcard o coupè?” mi domanda l’addetta, che parla solo russo.

Riesco, seppur a fatica, a comprendere che le due diverse soluzioni, propostemi dall’addetta alla biglietteria, corrispondono rispettivamente alle cuccette e al vagone-letto.

Dopo qualche attimo di esitazione, mi decido a chiedere una cuccetta al piano inferiore, in modo da evitare rocambolesche acrobazie notturne, assai poco consone alla mia età.

Manca ormai meno di mezz’ora alla partenza, prevista per mezzogiorno e quarantasette (ma sul biglietto è indicata l’ora di Mosca, 13,47).

Mi avvio al binario, per fermarmi a “contemplare” il lungo convoglio che mi porterà sino a Mosca.

I vagoni, freschi di vernice, sono colorati in due distinte sfumature di grigio, su cui spicca la sigla stilizzata, in rosso fiammante, delle “RZD”, le “Rossyskie Zelenye Dorogi” (letteralmente “Strade Ferrate Russe”), ovvero le ferrovie statali della Federazione Russa.

Il mio è uno degli ultimi vagoni, il numero dieci, per cui mi faccio con calma tutto il percorso, osservando attentamente i passeggeri che si preparano a quello che appare come un viaggio piuttosto lungo, anche per gli standard di questo sterminato Paese.

Quando finalmente mi decido a salire sul “mio” vagone, mi rendo conto che la disposizione delle cuccette è assai diversa da quella a cui siamo abituati noi.

Al posto dei nostri scompartimenti (con quattro o sei cuccette ciascuno, a seconda della classe), ci si trova qua in un unico spazio comune, attraversato da un lungo corridoio, su cui si affacciano due file di cuccette (quattro da un lato e due dall’altro) completamente aperte.

Non posso fare a meno di pensare, con sgomento, che mi toccherà passare, qua dentro, tutta la notte.

Per fortuna, la preoccupazione iniziale cede ben presto il posto alla curiosità del viaggiatore.

“Perché ti lamenti, Paolo? Volevi la full immersion tra i russi, sei stato accontentato”, mi dico, in tono scherzoso, mentre mi sistemo al mio posto, situato sul lato delle cuccette a due.

Il mio “compagno di cuccetta” è un ragazzo sui vent’anni, ma al momento è impegnato a salutare la mamma, dal finestrino.

Sul lato opposto, si trovano invece soltanto due signore sulla quarantina, Larissa ed Ina.

“Irina?” mi viene spontaneo chiederle.

“Non Irina, Ina. È un antico nome russo, oggi non molto diffuso, per cui molti finiscono per chiamarmi Irina o ancora più spesso Ira, che è l’abbreviazione di Irina”.

Ina appare, tra le due, la più socievole. Mi spiega che fa il medico a Kaliningrad e che sta andando in vacanza nella capitale per tre/quattro giorni, in compagnia della sua amica.

“Prende spesso questo treno?”, domando.

“Non spessissimo, anzi, per verità, quasi mai. Preferisco l’aereo ma stavolta non sono riuscita a trovare posto su voli per Mosca e ho dovuto quindi ripiegare, insieme alla mia amica, sul treno”.

“Lei, piuttosto – ribatte – che ci fa da queste parti? Non se ne vedono molti di italiani, a Kaliningrad”.

“Da quando sono in pensione – mi limito, dal canto mio, a risponderle – trascorro buona parte della primavera e dell’estate vicino Danzica, non lontano dal confine con Kaliningrad, per cui mi è venuto comodo, dovendo andare a Mosca, fare questo tragitto, che oltretutto è assai più economico, rispetto ai voli diretti con l’Italia”.

Nel frattempo, il mio compagno, dopo che il treno ha lasciato la Stazione, è tornato al suo posto, per cui ne approfitto per fare la sua conoscenza.

Si chiama Sergei (si pronuncia, però, Serghiei), ha ventitré anni ed è originario di Omsk, in Siberia, ma da qualche anno si è trasferito a Kaliningrad con la madre, che fa il medico nell’ospedale cittadino.

“Lavori?”

“Non ancora, perché ho terminato da poco l’università”

“Che facoltà?”

“Ho fatto costruzioni edili”, mi risponde in russo, visto che il suo Inglese è decisamente peggiore del mio, che pure non è certo brillante.

Poi aggiunge che sta andando a Mosca ad incontrare la sorella maggiore, che vive ancora ad Omsk con il marito ed i bambini.

“Mia madre vorrebbe che anche lei venisse ad abitare a Kaliningrad, con tutta la famiglia, ma il marito non ne vuole sapere di lasciare la Siberia”.

“Ti fermi molto a Mosca?”.

“Sino a mercoledì; dopo di che tornerò a Kaliningrad, insieme a mia sorella e ai bambini, che si fermeranno da noi per tutto il periodo di Pasqua”.

“Pasqua?”, non posso fare a meno di manifestare un moto di stupore.

“La nostra Pasqua – sottolinea lui – quest’anno cade domenica prossima primo maggio ma le vacanze si protrarranno sino a martedì tre maggio”.

La conversazione è bruscamente interrotta dall’arrivo della “provaditsa” che catalizza immediatamente tutta la mia curiosità.

Si tratta, infatti, del mio primo contatto diretto con questa figura, che conosco unicamente grazie agli scarni resoconti di viaggiatori, sulle ferrovie russe, che mi è capitato di leggere sinora.

Ogni vagone –sui treni a lunga percorrenza – dispone di una sua “provaditsa”, che si occupa di tutto, dal disbrigo delle formalità burocratiche alla consegna del “kit” per la notte sino al ritiro delle lenzuola, al mattino, senza trascurare la gestione del “samovar”, la macchina del tè, come la chiamo io.

Sta passando a distribuire i formulari, per il controllo della guardia di frontiera lituana.

A me (che, in quanto cittadino dell’Unione Europea, non devo compilare alcun formulario per entrare in Lituania) consegna invece un modulo bielorusso, anche se il confine con Minsk è ancora lontano.

Del resto sono l’unico passeggero, in tutto il vagone, a dover predisporre il modulo della Bielorussia, che invece non serve ai russi, dato il regime di libera circolazione in vigore tra i due Paesi.

È una graziosa biondina sui trent’anni, per cui provo a “familiarizzare”. “Kak Vas zavut?” (Quale è il Suo nome?), le chiedo.

“Maria”, risponde secca, per poi proseguire il suo giro.

Per consolarmi mi affaccio al finestrino, da dove posso ammirare i boschi di betulle che si estendono per chilometri su entrambi i lati della ferrovia.

Dopo appena dieci minuti, o forse meno, le betulle cedono d’improvviso il posto ad un grappolo di capannoni, oggi deserti, probabilmente per la giornata festiva.

Il treno diminuisce gradualmente la velocità per poi fermarsi in quella che tutta l’aria di essere una stazione importante, Cerniakovsk (questo, almeno, è il nome che riesco a decifrare, grazie alle mie fresche conoscenza dell’alfabeto cirillico).

Maria accompagna da noi un altro passeggero, un giovane sui 30/35 anni, che va a sedersi accanto ad Ina.

“Mi chiamo Paolo, vengo dall’Italia”, gli faccio.

“Piacere, Evgheny”, risponde lui, senza alzare gli occhi dal formulario lituano.

Anche gli altri sono assorti nella compilazione del formulario.

Ne deduco che non dovremmo essere molto lontani dal confine.

Nel giro di un quarto d’ora il treno si ferma di nuovo, stavolta a Nesterov.

Maria torna con un altro passeggero, il sesto della nostra “squadra” (e così siamo al completo, penso).

“Buongiorno a tutti, sono Alexandr, Sascia per gli amici”.

La sua voce squillante, soffusa di giovanile esuberanza, ha l’effetto di far risaltare ancor meglio i tratti, dolcemente infantili, del viso.

“Quanti anni hai?” mi viene da chiedergli.

“Diciotto, quasi diciannove” risponde lui.

Ma gli altri non sembrano far caso al nuovo arrivato, avendo gli occhi puntati sulla banchina, dove uno squadrone di poliziotti si prepara a fare irruzione sul convoglio, che sta per lasciare il territorio russo.

Alcuni di loro si sono addirittura infilati sotto il treno, per verificare non so bene che cosa.

Questa scena, ai giorni nostri insolita, almeno in Europa, mi riporta indietro di quarant’anni, ai controlli minuziosi (maniacali, mi verrebbe da definirli) della polizia cecoslovacca, al confine con l’Austria, sul treno diretto da Varsavia a Vienna (lo “Chopin Express”, a cui, non a caso, ho intitolato il mio primo libro).

Sul nostro vagone salgono in quattro, due uomini e due donne, tutti giovanissimi.

“Passport”, mi intima, in tono perentorio, una bella mora dai tratti caucasici.

Mi fa segno di togliere gli occhiali – per poter meglio accertare la corrispondenza con la foto – e poi si mette a digitare i miei dati sul portatile.

“Ha parenti o amici qua in Russia?”, mi chiede la solerte poliziotta, a cui certo non sono sfuggiti i numerosi visti russi sul mio passaporto.

“Ho un’amica a Mosca, una mia connazionale che insegna alla Scuola Italiana” le rispondo con prontezza.

“Spassiba i dazvidania”, mi saluta alla fine, accennando un sorriso.

Dopo circa venti minuti, o forse più, i quattro scendono.

“Si riparte?”, chiedo.

“Non ancora”, replica Evghieny, indicando con la mano un altro poliziotto, appena salito insieme ad un grosso cane-lupo, di quelli che i nostri finanzieri utilizzano normalmente per i controlli antidroga negli aeroporti.

Mentre il cane, al guinzaglio del suo padrone (o collega?), percorre senza fretta il corridoio, fiutando dappertutto, mi viene in mente la scultura dedicata appunto alla “guardia di frontiera con cane”, posta all’interno della Stazione Metro di Piazza della Rivoluzione, a Mosca.

Terminati i controlli russi – che, tra una cosa e l’altra, hanno portato via tre quarti d’ora buoni- il treno riparte alla volta di Kibartay, il posto di frontiera lituano.

“Speriamo che i lituani siano più veloci”, dico ad Evgheny, nella sua lingua.

“In questo caso dovrebbero essere abbastanza rapidi, perché si tratta di un treno diretto a Mosca e i passeggeri sono tutti in transito per la Lituania. Ma sui locali per Vilnius sono molto pignoli anche loro, non meno dei nostri”, risponde lui, che mostra di conoscere bene le procedure di controllo alla frontiera.

“Che lavoro fai?”, mi viene spontaneo chiedergli.

“E tu?” ribatte, non nascondendo un attimo di perplessità di fronte a quella che deve probabilmente apparire, ai suoi occhi, una curiosità inopportuna, in quanto proviene da un cittadino dell’altra Europa.

“Sono pensionato e proprio per questo mi piace curiosare sul lavoro degli altri”.

“Bella professione la tua – osserva, sorridendo – io invece lavoro per le RZD, le ferrovie statali russe; mi occupo non di passeggeri, ma di trasporto merci, che qua è molto importante”.

“Non hai idea – prosegue, dopo una breve pausa – del volume di merci che ogni giorno dal Porto di Kaliningrad raggiunge, via treno, le più disparate località della Russia”.

Intanto due guardie di frontiera hanno cominciato i loro controlli, piuttosto sbrigativi, come aveva pronosticato Evgheny.

Scendono dopo pochi minuti e il treno, nel giro di un quarto d’ora, può riprendere la sua corsa in direzione di Vilnius.

Ne approfitto per “attaccare bottone” con Sascia.

“Sei di Kalinngrad?”.

“No, sono nato e cresciuto in Kirghizistan, ma sono russo”.

“Che ci fai da queste parti?”, gli chiedo.

“Appena ho compiuto diciotto anni mi sono arruolato nel nostro esercito e loro mi hanno mandato qua”.

“E i tuoi genitori?”.

“Mio padre vive ancora in Kirghizistan, ma mia madre, purtroppo, è mancata qualche anno fa”, risponde con semplicità, trattenendo a stento le lacrime.

Non posso fare a meno di provare una grande tenerezza nei confronti di questo ragazzo (poco più che un bambino) sballottato a migliaia di chilometri dalla famiglia, in una sperduta guarnigione di frontiera dell’Armja, come lui chiama il “suo” esercito.

Al che mi viene spontaneo parlargli di mio figlio Cristoforo e anche del mio Paese, l’Italia.

“Che cosa pensano in Italia di noi russi?”, mi interrompe lui.

“Abbiamo moltissima simpatia per i russi”.

“E del nostro presidente, di Vladimir Putin che cosa si dice in Italia?”, mi incalza, con infantile curiosità.

“Il vostro presidente è molto popolare anche in Italia”.

È la mia pronta – anche se non del tutto sincera – risposta, che sortisce comunque l’effetto di rassicurarlo, tanto che estrae dallo zaino un portachiavi, da cui pende una piccola salamandra verde.

“Questo è un ricordo della Russia per Te”, mi fa lui, porgendomelo con un gran sorriso.

Provo, a mia volta, a ricambiare con l’unico “souvenir d’Italie” che riesco a trovare frugando in valigia: una bella cartolina a colori di Bergamo Alta, da me acquistata venerdì scorso all’Aeroporto di Orio.

“Che ne dici se andiamo anche noi a berci un tè?” gli chiedo.

Lui estrae dallo zaino un pacchetto di biscotti e si dirige verso il samovar, all’ingresso del vagone , appena oltre la stanzetta della “provaditsa”, dove Sergei ed Evgheny sono impegnati in un’accesa disputa di carattere calcistico.

Tifano, infatti, per due squadre rivali del Campionato russo, Sergei per la Dinamo ed Evgheny per lo Spartak Mosca.

“E la tua squadra del cuore?” chiedo a Sascia.

“È la nostra Nazionale”, mi risponde lui, porgendomi un “megabiscotto”, che mi affretto ad intingere nel tè.

Sascia sembra divertito della vivace discussione in corso tra i nostri due “compagni di cuccetta”.

Per quanto mi riguarda, invece, le scaramucce tra tifosi non mi hanno mai appassionato (nemmeno in Italia, figuriamoci in Russia!), per cui torno al mio posto, lasciando Sascia insieme agli altri due.

Accendo il telefonino, dove leggo un sms appena arrivato; proviene dalla compagnia telefonica lituana e mi informa della possibilità di chiamare in Italia, e negli altri Paesi UE, con pochi centesimi al minuto.

Balza subito agli occhi il divario con le tariffe, ben più salate, delle telefonate internazionali dalla Russia, per cui mi affretto a chiamare casa. A rispondermi, è la voce gioiosa di Cristoforo.

“Sono a casa con Mamma ed Alessandro; siamo appena rientrati dal ristorante” mi dice, per passarmi, subito dopo, Carla, la quale si diverte ad illustrarmi, nei dettagli, le prelibatezze del menù domenicale.

“Tu invece – conclude lei – immagino ti sarai preso la solita brodaglia”.

“No, solo una tazza di tè con un biscotto”, mi limito a replicare, lasciando cadere ogni punta polemica, a cui peraltro sono avvezzo.

La conversazione continua ancora a lungo, ma senza più toni polemici.

A parlare è soprattutto Carla, che mi racconta, con la consueta vivacità, le “ultimissime” del suo ambiente di lavoro.

Dopo averla salutata, controllo il costo della telefonata: meno di due euro per un buon quarto d’ora di conversazione. Non oso immaginare quanto mi sarebbe costata quella chiamata, dalla Russia.

Il treno intanto prosegue a velocità sostenuta la corsa, in mezzo ad un paesaggio che non si discosta molto dalla campagna di Kaliningrad.

Passa ancora mezz’ora, prima che si comincino a scorgere i casermoni, in buona parte risalenti all’epoca sovietica, della periferia di Vilnius, la capitale lituana.

Arrivato in Stazione, il nostro convoglio si ferma su uno degli ultimi binari, esattamente dalla parte opposta rispetto all’elegante stazione, che ha tutta l’aria di essere stata ristrutturata da poco, probabilmente con i fondi comunitari (almeno così mi vien da pensare, notando in lontananza un cartellone con le stelle e il colore azzurro dell’Unione).

Il binario, su cui ci troviamo, non sembra però aver beneficiato delle generose elargizioni di Bruxelles.

A colpirmi è soprattutto la recinzione metallica che ci separa (certo non casualmente) dal resto della Stazione, in singolare sintonia con la curiosa “disposizione logistica” della Stazione degli Autobus di Danzica.

Anche in quel caso, la fermata dell’autobus per Kaliningrad (e quindi per la Russia) appare confinata al marciapiede n. 11, ben separato dagli altri.

“Quanto staremo fermi?”, chiedo ad Ina.

“Minimo un quarto d’ora, forse anche di più”.

Mi avvio verso l’uscita, per fermarmi un attimo dai ragazzi che (messe da parte le loro dispute calcistiche) si stanno gustando un’altra tazza di tè, accompagnata dai “megabiscotti” di Sascia.

“Perché non scendiamo?”, domando loro.

“Perché qua non si può”, è la secca risposta di Evgheny.

“Io ci provo lo stesso”, rispondo piccato, per poi scendere velocemente le scalette.

Maria, però, con un gesto perentorio della mano mi ricaccia dentro.

Mi fermo sul predellino ad osservare lo spettacolo che si presenta davanti ai miei occhi increduli: le “provaditse” sono tutte schierate, ciascuna di loro pare intenta a vigilare la porta d’accesso al proprio vagone.

Evgheny – che ha assistito al mio sfortunato tentativo di “evasione” – mi spiega i motivi di quella che a me sembra una grottesca messinscena.

“Quando tra poco lasceremo la Lituania, le guardie di frontiera si preoccuperanno di controllare che il numero dei passeggeri in uscita corrisponda esattamente al numero di quelli risultanti in transito”.

“Ciascuna provaditsa è chiamata a rispondere dei passeggeri che le sono stati affidati. Ecco perché qua a Vilnius – conclude – non permettono a nessuno di scendere, neanche per fumare una sigaretta. Hanno paura di perderne qualcuno e di avere poi delle grane con i lituani”.

La spiegazione di Evgheny produce l’effetto di riconciliarmi con Maria e con le sue colleghe.

Mi fermo anch’io con i ragazzi a bere un altro tè e a gustarmi i biscotti di Sascia.

Poi, quando il treno riparte, ce ne torniamo al nostro scompartimento.

Mi metto a scambiare quattro chiacchiere con Evgheny, l’unico del gruppo a cavarsela discretamente con l’Inglese.

Scopro così che ha viaggiato molto, in treno e in aereo, per tutta la Russia.

“Ti sei fatto anche la transiberiana?”, gli chiedo.

“Solo il primo tratto, da Mosca ad Ekaterinenburg. Sono stato pure a Novosibirsk, Irkutsk e Magadan, ma in aereo”.

“In treno – prosegue – mi sono fatto tutto il percorso da Mosca ad Arkangels, sul Mar Bianco, in pieno inverno”.

“Paesaggi di una bellezza inimmaginabile”.

E così dicendo mi mostra, sul suo tablet, alcune foto invernali della regione di Arkangels, capaci di evocare, in me, le parole del poeta e viaggiatore Rilke, secondo cui “la Russia è il Paese che confina con Dio”.

Tra le tante immagini suggestive della regione che si affaccia sul Mar Bianco, mi colpisce soprattutto una foto del Monastero Ortodosso delle isole Solovki, dette anche isole delle lacrime, per avere ospitato (a partire dal 1923, con Lenin ancora vivo) il primo gulag sovietico.

Il pensiero va immediatamente ai versi, semplici e terribili, di Olga Jafa, ex deportata alle Solovki.

“C’è un posto al mondo ove si invecchia

due volte prima che nella vita normale.

Là non si vive, si sconta la pena.

Non c’è niente che duri, che valga far bene.

Non muoiono, là, ci lascian la pelle.

Bambini ne nascono solo illegittimi

per poi perire, l’un dopo l’altro…”.

Ad interrompere le mie fantasticherie è ancora una volta Evgheny.

“Abbiamo visite, Paolo”, mi dice, indicando Maria che sta iniziando il “giro del vagone” insieme ad un’avvenente signora , sulla quarantina, che indossa un’elegante uniforme delle Ferrovie Russe.

“Quella è la direttrice, è la comandante in capo delle provaditse”, aggiunge, non senza un filo di ironia, Ina, che si è unita a noi per ammirare le immagini ricche di fascino delle estreme propaggini settentrionali della Russia Europea.

Passa velocemente in rassegna la “truppa” dei passeggeri per fermarsi proprio accanto a noi.

Maria deve avergli accennato alla presenza di un viaggiatore occidentale perché si rivolge direttamente a me.

“Tsio karasciò?” (Tutto bene?), mi fa.

“Tsio karasciò”, ripeto a mia volta.

Al che mi domanda se è il mio primo viaggio sulle Ferrovie Russe.

Le rispondo (con l’aiuto di Evgheny, che mostra di cavarsela bene, anche come interprete) che si tratta della mia prima esperienza su un treno russo a lunga percorrenza, anche se – ci tengo a precisare – mi è capitato altre volte di viaggiare in treno tra Mosca e San Pietroburgo, sempre, però, su rapidi o intercity e per una durata mai superiore a 4/5 ore.

“Allora benvenuto tra noi e mi auguro di rivederLa ancora”, si congeda così da me, non senza avermi prima dispensato un sorriso accattivante.

“Prendo spesso questo treno ma non mi era mai successo di incontrarmi a tu per tu con la comandante in capo. Evidentemente l’ha incuriosita la tua presenza, o meglio la presenza di un viaggiatore occidentale, abbastanza insolita, almeno su questa tratta”, è il commento di Evgheny.

Dopo una ventina di minuti il treno si ferma e salgono due guardie di frontiera lituane.

Mentre il primo ritira i formulari dei passeggeri russi, timbrati all’ingresso nel Paese dai suoi colleghi, l’altro conta le “teste”.

Il tutto si svolge nel giro di cinque, dieci minuti al massimo.

Raggiunta, quindi, la Stazione di frontiera bielorussa, tocca agli “uomini di Lukascenko” effettuare il controllo.

Salgono in quattro sul nostro vagone, due dei quali (dopo aver parlato con Maria) vengono direttamente da me, che evidentemente sono l’unico non russo, presente a bordo.

Mentre l’uomo verifica il passaporto e i dati del formulario, la ragazza controlla con scrupolo la mia valigia.

Sembra stupita dal fatto che io abbia intrapreso un lungo viaggio, portando con me una semplice valigetta.

Ma anche in questo caso, i controlli si rivelano abbastanza veloci , per cui il convoglio può ripartire dopo appena un quarto d’ora, o poco più.

Adesso che il nostro treno si è definitivamente lasciato alle spalle “l’ostile terra di Lituania”, l’atmosfera a bordo sembra essersi fatta d’improvviso più distesa, quasi familiare.

Parecchi passeggeri – complice anche l’ora serale – cominciano ad estrarre dalle borse pacchi e pacchettini di viveri mentre altri si accalcano attorno al samovar, per prepararsi il tè.

“Perché non andiamo al ristorante?” chiedo ad Evgheny.

“Al vagone ristorante? – mi risponde, perplesso – ma non ne vale la pena, costa un occhio della testa ed oltretutto non si mangia neanche bene; meglio arrangiarci con quello che ci siamo portati da casa”.

“Ma io non mi sono portato niente”, replico, un po’ imbarazzato.

“Nessun problema – mi tranquillizza lui – tu vai al samovar, a preparare il tè per tutti, mentre noi provvediamo ad apparecchiare la cena”.

Colgo al volo il suo invito e mi avvio verso il samovar.

Quando ritorno, con sei tazze di tè fumante, trovo il tavolino sul lato opposto dello scompartimento (quello delle cuccette a quattro) già apparecchiato. Il piatto forte è rappresentato dalla deliziosa zapiekanka salata al cavolo e pancetta, gratinata al forno, preparata dalle due signore. Debbo riconoscere che la versione russa (almeno nella ricetta proposta da Ina e Larissa) è assai più gustosa ed elaborata dell’omonimo piatto polacco, che sono solito acquistare, quando non ho voglia di andare al ristorante, in una “rosticceria” di Gdynia, vicino a dove abito.

Ci sono poi – a completare il menù di questa improvvisata “cena fredda”- i salumi affumicati, duri come sassi, di Evgheny, i dolcetti di Sascia e le birre “tedesche” di Sergei, che hanno il potere di spargere allegria e buonumore tra i commensali.

L’atmosfera è piacevole e rilassata – familiare, mi verrebbe da dire – ma le due signore cominciano ad avvertire la stanchezza di una giornata di viaggio, per cui, terminata la cena, si preparano per la notte.

I ragazzi ,invece, hanno ancora energia da vendere e decidono di andare a bere qualcosa al bar.

“Vuoi venire con noi?” mi chiede Evgheny.

“Grazie, ma io purtroppo non ho la vostra età e comincio a sentire un po’ di stanchezza; andate pure; a domattina”.

Mentre i ragazzi si avviano al bar, mi fermo, pochi passi più in là, ad osservare due coppie di mezza età, impegnate in una serrata partita a carte, sotto gli occhi attenti di un gruppetto di curiosi.

Uno di questi – un ometto rotondo come una palla di ping pong – mi cede il suo posto, accanto ad uno dei giocatori.

“Sono Gamid” si presenta.

“Da dove vieni?”

“Sono originario dell’Azerbaigian ma vivo a Mosca da quando ero un ragazzino e al Cremlino c’era ancora Breznev”.

Intanto l’arrivo dell’Italiano (come ormai sono soprannominato in tutto il vagone) ha interrotto, per qualche attimo, la partita.

“Mi chiamo Paolo”, esordisco.

“Piacere, Vitaly”, mi fa eco l’uomo seduto accanto a me, che ha tutta l’aria di essere il leader naturale della compagnia.

Infatti provvede a presentarmi gli altri giocatori, anzitutto la moglie Svetlana e quindi l’altra coppia, Liudmila e Pavel (un mio omonimo, in versione russa).

“Il nostro amico Gamid lo hai già conosciuto, vero?”.

“Che gioco state facendo?” domando a Vitaly.

“È il durak, un gioco molto popolare qua da noi. Vuoi provare a giocare anche Tu?”.

“Mi piacerebbe molto – rispondo – ma purtroppo non conosco il gioco”.

“Allora segui la nostra partita, così potrai impararlo e magari portarlo anche in Italia” conclude lui, riprendendo in mano le carte.

Seguo con attenzione le mosse dei vari giocatori e mi sembra di capire che il gioco ricalca, almeno nei passaggi essenziali, la nostra briscola.

“Allora, hai imparato il nostro durak?” mi chiede Vitaly alla fine, mentre la moglie Svetlana è impegnata a riporre il mazzo di carte in un elegante cofanetto.

“Anche noi, in Italia, abbiamo un gioco molto simile, la briscola”.

Così dicendo mi congedo – con un bell’arrivederci nella mia lingua – da Vitaly, Gamid e dal resto della compagnia.

I ragazzi non sono ancora tornati, mentre le due signore stanno dormendo alla grande. Sistemo rapidamente il mio lettino e mi metto a riposare anch’io.

Quando mi sveglio, il treno è fermo in una grande stazione e l’orologio segna mezzanotte e mezzo.

Mi guardo attorno: dei ragazzi neanche l’ombra.

Preoccupato, mi vesto in fretta e furia e scendo.

Sascia, Sergei ed Evgheny sono sul binario, accanto alla scala del sottopassaggio, a fumarsi tranquillamente una sigaretta.

“Ve ne approfittate perché Maria sta dormendo!”, esclamo, in tono scherzoso, rivolto ad Evgheny.

“Ma qua non siamo più a Vilnius, siamo a Minsk, in Bielorussia, per cui Maria e le sue colleghe possono dormire sonni tranquilli”.

“Se per caso qualcuno di noi decidesse di scendere qua, non accadrebbe assolutamente nulla. Anche noi – prosegue, senza nascondere un moto di rivalsa verso l’altra Europa, quella di Bruxelles – abbiamo la nostra area di libera circolazione, solo che non si chiama Unione Europea ma Unione Euroasiatica e va da Minsk ad Astana”.

“Astana???” è la mia reazione istintiva, di fronte ad un nome del tutto sconosciuto.

“Non conosci Astana? Per un viaggiatore come te è grave” replica lui, divertito.

“È la nuova capitale del Kazakistan, una città ultramoderna, dal profilo avveniristico. E’ un po’ la nostra Dubai”, conclude.

“Se è così, non mi interessa, preferisco i ghiacci di Arkangelsk”.

Con queste parole, saluto Evgheny e gli altri due, per tornarmene a dormire.

Nel giro di pochi minuti cado in un sonno profondo, che stranamente (almeno per le mie abitudini) si protrae per tutta la notte, segno che le fatiche del viaggio cominciano a farsi sentire.

Quando riapro gli occhi, il sole è già alto all’orizzonte e l’orologio segna dieci alle sette (ora di Mosca, naturalmente).

I miei “compagni di cuccetta” dormono tutti, tranne Larissa.

“Rossya”, esclama, indicando la campagna che scorre veloce davanti ai nostri occhi.

“E il controllo alla frontiera?”, le chiedo, temendo di essermi perso un passaggio.

“Nessun controllo tra Bielorussia e Russia”, risponde lei, con aria soddisfatta.

Da parte mia, decido di approfittare del fatto che gli altri passeggeri stanno ancora dormendo, per andare a lavarmi velocemente.

Mi fermo quindi al samovar, dove Maria si sta gustando il suo primo tè della giornata.

“Fai sempre questa linea?” le domando.

“Si, di solito lavoro su questa linea oppure sulla Kaliningrad/San Pietroburgo”.

“Viaggi più lunghi ti è mai captato di farne?”.

“Una volta soltanto, la scorsa estate, mi sono fatta tutto il percorso da Kaliningrad a Soci, sul Mar Nero, passando per Mosca; un viaggio di tre giorni”.

“Ocen utomitielnii” (molto faticoso), è il mio commento a caldo.

“No, non molto – risponde lei, con un sorriso – anzi è stato divertente, perché c’erano molti bambini o ragazzini ed erano tutti contenti perché stavano andando al mare. Alla fine eravamo diventati amici”.

Nel frattempo, altri passeggeri si sono radunati attorno al samovar, per cui saluto Maria, per “tornare nei ranghi”.

Evgheny e Sascia debbono essersi appena alzati, perché stanno riponendo con cura le lenzuola, mentre Ina e Larissa sono prese dalla lettura.

“Come hai trascorso la notte?”, mi chiede Evgheny.

“Molto bene, perché sono riuscito a fare tutto un sonno; voi, piuttosto, mi sembra che non abbiate dormito molto, stanotte”.

“Cinque ore e mezzo, quanto basta per ricaricare le batterie”, è sempre Evgheny a parlare.

“Il vostro amico, però, sembra che abbia bisogno di tempi più lunghi”, osservo, indicando Sergei, che continua a dormire alla grande, nella cuccetta sopra di me.

“Ma lui – replica Evgheny – è un cucciolo casalingo, si fa ancora preparare i pranzetti dalla mamma”.

Per parte mia, ben sapendo che a Mosca mi attende una giornata faticosa, decido di imitare l’esempio di Sergei e mi rituffo in cuccetta, per concedermi un ultimo sonnellino.

“Forza, Paolo, è ora di alzarsi, mancano venti alle nove; tra poco passerà Maria a ritirare le lenzuola”.

La voce di Evgheny – “il mio incubo” come l’ho soprannominato io, in tono scherzoso ma non troppo – mi strappa bruscamente dalle “braccia di Morfeo”.

Mi alzo in fretta e con l’aiuto di Sergei sistemo la cuccetta.

Il vagone ha ormai assunto il suo aspetto “di giorno”.

Si comincia ad avvertire nell’aria la trepidazione dell’attesa, per l’approssimarsi della meta finale, la grande Mosca.

Le casette dell’hinterland, sparse a grappoli, vengono soppiantate ben presto dai primi casermoni dell’immensa periferia dell’ex capitale sovietica.

Alle nove in punto passa Maria, veloce come un treno, a ritirare le lenzuola.

“A che ora arriviamo?”, chiedo ad Evgheny.

“Tra venti, venticinque minuti al massimo, giusto il tempo per un ultimo tè”.

E così dicendo, si dirige verso il samovar, seguito a ruota da Sascia, per tornare, dopo neanche cinque minuti, con sei belle tazze di tè caldo.

“Da Maria mi sono fatti dare questi, per accompagnare il tè” fa Sascia, mettendo sul tavolino sei biscotti.

Mentre ci gustiamo quest’ultimo tè, Evgheny e Sascia intonano un’allegra canzoncina popolare.

Sergei, a sua volta, estrae dallo zaino una bottiglia di vodka e riempie sei bicchierini di carta.

“Dobbiamo salutarci alla nostra maniera”, esclama, alzando il bicchiere per il brindisi, proprio nel momento in cui il treno sta entrando in stazione.

Ci salutiamo in questo modo, con un bel brindisi “alla russa” (anche se io mi limito prudentemente ad un assaggio, evitando di ingurgitare la vodka in un sol sorso, secondo la tradizione popolare).

I miei nuovi amici – grazie ai quali ho potuto avere una piccola dimostrazione dello spirito più autentico di questo popolo – si affrettano a scendere, ma io mi fermo ancora qualche minuto ad osservare il deflusso dei passeggeri, rallentato dalla notevole mole di bagagli che molti si sono portati dietro.

Quando anche l’ultimo passeggero è sceso a terra, prendo la mia valigia e mi dirigo verso l’uscita.

Scorgo Maria che nella sua stanzetta sta compilando un modulo (la Russia è ancora oggi il regno della burocrazia) e la saluto con un caloroso “arrivederci alla prossima”...