“Transiberiana 2018. Un viaggio tra mito e realtà” è il nuovo libro di Paolo Vettori che raccoglie le esperienze di quasi 4 settimane di viaggio tra Mosca e Vladivostok lungo i binari della mitica ferrovia transiberiana, si presta a diverse chiavi di lettura.
È certo il coronamento di un suo sogno giovanile rimasto per decenni nel cassetto e, al tempo stesso, anche un modo per ripercorrere la storia russa del Novecento, in alcuni dei suoi momenti più drammatici, e ancora oggi spesso messi in sordina, dalla guerra civile seguita alla Rivoluzione di Ottobre, che ha insanguinato per circa tre anni molti dei territori attraversati dalla “transiberiana”, sino alle deportazioni di massa dell’epoca staliniana, protrattesi per oltre un ventennio a partire dai primi anni Trenta. Una pagina, quest’ultima, che ha coinvolto milioni di vittime innocenti e che, nonostante un certo riserbo ufficiale, appare ancora ben presente nei ricordi familiari di parecchie persone, come lo scrittore ha potuto constatare più volte nei suoi incontri, sul treno o nelle città che ha visitato.
Ma a spingerlo oltre gli Urali, più che la sua passione per la Storia, è stato soprattutto il desiderio di accostarsi alla complessa realtà di uno Stato-Continente con solide radici europee, ma sempre più chiaramente proiettato verso le dinamiche economie asiatiche del Pacifico, non solo la Cina, ma anche la Corea del Sud e il Giappone.
È una sensazione che si avverte con grande evidenza proprio in quello che i russi chiamano “Dalny Vostok” (Lontano Oriente), a Kabarovsk e soprattutto a Vladivostok, una città modernissima e in continua evoluzione, su cui Putin ha investito molto, sino a trasformarla da semplice avamposto militare a vetrina, sul Pacifico, della Russia del Nuovo Millennio.
Le lunghe giornate, trascorse in treno o comunque su itinerari assai poco “turistici”, hanno consentito a Paolo Vettori di entrare in contatto, grazie alla conoscenza della lingua acquisita in questi ultimi tre anni, con fasce significative della popolazione (pensionati e lavoratori della provincia o meglio, in questo caso, delle province transuraliche) che rimangono fuori dalla portata del turismo occidentale, troppo spesso fermo alle due storiche capitali della Russia moderna, Mosca e San Pietroburgo.
Ci auguriamo che i suoi “appunti di viaggio”, del tutto privi di qualsiasi pretesa di esaustività, possano stimolare nel lettore il desiderio di conoscere meglio questo grande e complesso Paese, andando oltre gli stereotipi e i pregiudizi, ancora molto radicati, in Occidente e non solo.
Pascal McLee
ANTEPRIMA
CAPITOLO I
In treno da Mosca agli Urali - 4 / 5 Maggio 2018
In una opaca mattinata dei primi di maggio, in cui i rigori dell’inverno appena trascorso (il più inclemente degli ultimi decenni) stentano a cedere il passo ad un timido sole primaverile, ha inizio a Mosca il viaggio che, attraverso varie tappe, mi porterà, verso fine mese, a Vladivostok, percorrendo gli oltre novemila chilometri della “transiberiana”, già segnati, dopo appena un secolo di vita, da una storia spesso drammatica.
Dall’estate del 2013, da quando è cominciata la mia stagione di “pensionato-viaggiatore”, mi è capitato di frequente di avventurarmi su percorsi non turistici, in particolare nelle impervie montagne a sud del Caucaso, tra Armenia, Nagorno-Karabakh e Georgia.
Eppure questo nuovo viaggio rappresenta (ne sono ben consapevole) una grossa incognita ed ha infatti richiesto una lunga fase preparatoria, iniziata lo scorso febbraio a Milano, quando, alla “Borsa Internazionale del Turismo”, sono riuscito a mettermi in contatto direttamente con una agenzia russa, la “Tsar Voyages”, che ha poi organizzato le varie tappe di questo mio solitario “balzo oltre gli Urali”, prenotando biglietti ferroviari, alberghi e anche, dove possibile, guide turistiche in Italiano o Spagnolo.
Mi sforzo di dominare l’ansia, fermandomi davanti al televisore, quasi a voler testare la mia conoscenza della lingua Russa, faticosamente acquisita in quasi tre anni di frequentazione di un corso di Russo, il mio personale “salvacondotto” nella Russia profonda, ovvero nelle numerose città interdette agli stranieri in epoca sovietica, dove la conoscenza delle lingue straniere appare ancora oggi pressoché inesistente o comunque assai limitata.
Poi finalmente mi decido a lasciare l’albergo per raggiungere la sede dell’agenzia, dove, alle 15 in punto, mi attende l’autista che mi accompagnerà alla Stazione “Kazanskaya”.
Il lungo viaggio sulla efficientissima rete di trasporto pubblico di Mosca si conclude a poche centinaia di metri dalla sede dell’agenzia, alla Stazione Metro della Lubianka.
Da quando, nell’ottobre del 2015, ho cominciato a frequentare con una certa assiduità la capitale russa, mi sono sempre tenuto alla larga da questo posto, simbolo degli anni più terribili del terrore rivoluzionario prima e staliniano poi, un atteggiamento certo contraddittorio rispetto alla mia grande passione per la storia del Novecento, ma che è forse la spia di paure e fantasmi ben radicati nel mio subconscio.
E il fatto che il mio viaggio per la Siberia debba partire proprio da qua mi appare come un segno da cogliere, più che una semplice coincidenza.
La piazza, in questa mattinata lavorativa, pare appena sfiorata dal traffico cittadino. Unica presenza stabile quella dei poliziotti che presidiano lo spazio antistante l’austero edificio, in mattoni gialli intervallati da ben visibili strisce rosse, che ha ospitato per decenni il KGB (inizialmente Ceka) ed è ora divenuto la sede dei Servizi di Sicurezza della Federazione Russa (FSB).
Mentre provo a scattare qualche foto, in modo piuttosto frettoloso per non attirare l’attenzione dei poliziotti, rimango colpito dalle dimensioni relativamente modeste dell’edificio, specie se confrontato alle “sette sorelle”, le torri staliniane che svettano ancora oggi nei cieli di Mosca.
Il che mi fa tornare in mente un detto popolare, risalente agli anni di Stalin, secondo cui “la Lubianka è l’edificio più alto di Mosca perché da là si può vedere la Siberia”.
Ancora oggi, “l’itinerario nel quartiere del grande terrore” (per riprendere il titolo di un interessantissimo post, pubblicato lo scorso 8 febbraio sul blog “Pain de Route”) non è normalmente contemplato nei “pacchetti turistici”, dove sono invece disponibili “communist tours”, che offrono una visione molto annacquata di una delle fasi più tormentate e drammatiche nella Storia non solo della Russia ma del Mondo intero.
Il “post” (a firma di Eleonora, con tanto di mappa allegata) mi aveva molto colpito, perché conteneva una descrizione dettagliata degli edifici attorno alla Lubianka, che, in particolare negli anni del grande terrore staliniano, ma non solo, venivano utilizzati per l’opera di massiccia repressione messa in piedi dal potere sovietico, a partire da Felix Dzerzhinsky (il comunista polacco, fondatore della polizia politica bolscevica, la cui statua ha continuato a dominare la Piazza fino al ’90) per arrivare a Beria, per anni a capo del KGB ed esautorato solo dopo la morte di Stalin.
Le parole di quel “post”, che avevo scovato per caso pochi mesi fa su Google, mi scorrono di nuovo davanti agli occhi, mentre ripercorro le strade attorno alla Lubianka, fino al “Pereulok Milutinski”, dove ha sede l’agenzia che ha organizzato il mio viaggio siberiano (“meglio che ad organizzarlo sia stata la Tsar Voyages, piuttosto che il KGB” mi dico, cercando di impormi un tono scherzoso).
Pochi minuti (giusto il tempo di scambiare qualche frase di circostanza con le impiegate dell’Agenzia) ed ecco arrivare il “mio” autista, Oleg, un simpatico quarantenne, piuttosto loquace, almeno per gli “standard” russi.
Mi sottopone ad un fuoco di fila di domande sul mio viaggio, che, ai suoi occhi, deve apparire come un’avventura stravagante, considerando l’età del protagonista (e infatti non esita a manifestare tutto il suo stupore, nell’apprendere che a fine mese, a viaggio appena concluso, festeggerò “i miei primi settant’anni”).
Poi il discorso si sposta sui suoi frequenti viaggi in Europa, in Serbia per la precisione, dove vivono il figlio e la ex moglie, una russa che da qualche anno si è trasferita a Novi Sad, non lontano dal confine con l’Ungheria.
La Serbia – a quanto mi sembra di capire dalle sue parole – è oggi diventata, per la Russia di Putin, un prezioso canale di comunicazione verso l’Europa, capace di “allargare le maglie”, non particolarmente rigide, delle sanzioni imposte da Bruxelles e soprattutto da Washington.
“Di che cosa si occupa tua moglie?”, provo a chiedergli.
“Di import/export”, è la sua laconica risposta, accompagnata da una eloquente strizzatina d’occhio.
Intanto siamo arrivati alla Stazione Kazanskaya, capolinea (insieme alla vicina Stazione “Jaroslavskaya”) dei collegamenti ferroviari tra la capitale russa e l’Oriente, più o meno lontano, dall’Asia Centrale al Caucaso alla Cina, passando per Siberia e Mongolia.
Prima di salutarmi, con un caloroso “arrivederci” nella mia lingua, Oleg mi scatta un paio di foto di fronte all’ingresso della Stazione, quasi a voler immortalare il momento della partenza di questo “stravagante” viaggiatore.
Superato il controllo “al metal detector”, mi soffermo a lungo ad osservare il movimento dei passeggeri in transito che, in questo venerdì pomeriggio, appare abbastanza intenso ma sempre molto ordinato.
Al momento sembrano nettamente prevalere gli studenti universitari “fuori sede”, diretti alle città di origine per trascorrere un weekend in famiglia, ma tra poco (alla chiusura degli uffici e delle fabbriche) saranno certamente sostituiti dalla massa dei lavoratori “pendolari”. Visto che manca una mezz’ora abbondante alla partenza, mi dirigo con calma verso il binario, dove è già pronto il treno per Ekaterinburg, la prima delle otto tappe del mio itinerario sui binari della “transiberiana”.
Si tratta di un treno “firmienny”, considerato (secondo gli standard delle Ferrovie Russe) di qualità superiore, in termini soprattutto di velocità, con un risparmio, in questo caso, di circa un paio d’ore, su un percorso che normalmente ne richiederebbe ventisette o poco più. Sul piano dell’organizzazione dei servizi, ricalca invece quella adottata dalla quasi generalità dei treni di lunga percorrenza in Russia (a parte il SAPSAN, che collega Mosca e San Pietroburgo in meno di quattro ore, l’unica “freccia” al momento funzionante nel Paese).
Rispetto all’Italia, due sono i principali tratti distintivi: anzitutto la presenza, in ciascun vagone, di una “provodnitsa” (o addirittura due, per i percorsi più lunghi) che si occupa di tutto, dal controllo dei biglietti, alla fornitura delle lenzuola, alla gestione del “samovar”, per la distribuzione di tè o caffè caldo; e poi – circostanza abbastanza singolare in Europa – la terza classe (“o platzcard”), con vagoni strutturati in un solo grande spazio aperto, attraversato da un corridoio su cui si affacciano due lunghe file, con quattro cuccette su un lato e due sull’altro.
Una soluzione non comodissima, tanto che lo stesso sito ufficiale delle “RZD” (Le ferrovie Russe) la definisce, testualmente, “la scelta ideale per coloro che danno più importanza al risparmio rispetto alle comodità”. Dal mio punto di vista , una scelta di questo tipo presenta (risparmio a parte) un vantaggio di non poco conto, offrendo l’opportunità di un contatto diretto con un mondo abbastanza eterogeneo (pensionati, operai, impiegati, studenti), ma ampiamente rappresentativo delle fasce medio-basse della popolazione , tagliate fuori dai circuiti del turismo internazionale, che costituiscono pur sempre il grosso dell’opinione pubblica del Paese, a cui sono diretti i messaggi (per noi spesso incomprensibili) del Cremlino e degli altri attori che si muovono sulla scena politica russa. Per questo ho deciso di effettuare questo mio viaggio nel cuore della “provincia russa” interamente in terza classe, anche a costo di rinunciare a qualche “comfort”.
Non si tratta di una novità, almeno per me, essendomi già fatto in platzcard un viaggio di circa venti ore, da Kaliningrad a Mosca, nell’aprile di due anni fa, un’esperienza molto interessante che mi ha fatto intravvedere, per la prima volta, un segmento consistente della società russa, di solito fuori dalla portata del turista straniero.
Al vagone assegnatomi (1P, dove P sta per platzcard) trovo già all’opera Tanja, la provodnitsa che mi accompagnerà in questo “balzo oltre gli Urali”.
I passeggeri sono tutti pazientemente in fila, documento e biglietto alla mano. Tanja, con la sua “lista” ben in mostra, adempie al controllo con scrupolo poliziesco, stemperato però dall’espressione gioviale del volto (“alla Kruscev”). Quando arriva il mio turno, sembra tirare un sospiro di sollievo nel sentirmi parlare in Russo, sia pure in modo approssimativo.
Probabilmente la presenza, nella lista, di un nome “esotico” (come il mio) deve essere stato motivo di preoccupazione, dal momento che lei, come la quasi totalità delle sue colleghe, non spiccica una parola di Inglese né di altre lingue straniere.
“Adinasset niznii” (cuccetta undici, in basso), mi dice, con un bel sorriso, consegnandomi il “set” di biancheria per la notte.
Prendo possesso della mia postazione e comincio a guardarmi attorno.
Il clima, anche in questo caso come già due anni fa, sembra stranamente familiare, “casereccio”, mi verrebbe da definirlo.
Uomini e donne di ogni età, dai lineamenti in netta prevalenza europei (tutti provenienti dalla “provincia”, anzi dalle mille province di questo immenso Paese), indaffarati nel sistemare, più o meno precariamente, pacchi enormi.
Mi piacerebbe curiosare dentro quei pacchi, che contengono gli acquisti effettuati nella capitale. Sbirciando tra le etichette, spunta qualche nome, “Ikea” e “Auchan”, soprattutto (quest’ultimo deve essere quello intitolato a Gagarin, nell’omonimo quartiere a sud del Centro, dove sono stato anch’io ieri, per comprarmi una “sim card” russa).
Pochi minuti prima della partenza, arrivano anche i miei “vicini”, una giovane donna con la figlia, sul lato opposto (quello a due, per intenderci) mentre nelle due cuccette di fronte alla mia trovano posto un ragazzo sulla trentina e un signore anziano.
Facendo affidamento sui miei recenti studi, provo ad imbastire in Russo con i miei due dirimpettai una conversazione che si sforza, seppur molto faticosamente, di andare oltre i limiti, assai ristretti, delle mie conoscenze linguistiche.
Sia Vassili (il più anziano) che Ruslan provengono da Kazan e ne rispecchiano, in un certo senso, il dualismo etnico, tra la sua forte componente russa e l’identità tatara (è infatti, dal 1920, la capitale della Repubblica Autonoma del Tatarstan).
Il primo è un russo originario di Voronez, che ha vissuto l’epopea industriale della città, negli anni ’60, e nei suoi racconti tradisce una insopprimibile nostalgia per quegli anni, gli anni della sua giovinezza e del boom industriale della città, divenuta il punto di approdo di molti immigrati, provenienti da tutte le Repubbliche dell’Unione.
Ruslan invece (le cui ascendenze tatare sono inequivocabilmente testimoniate dai tratti somatici) non ha fatto a tempo a conoscere, per ovvii motivi anagrafici essendo nato all’inizio degli anni ’80, l’epoca sovietica (con le sue contraddizioni e le sue sicurezze, per quanto illusorie) ma è praticamente cresciuto nei tumultuosi anni ’90.
“Oggi Kazan offre diverse possibilità ai giovani che cercano lavoro, ma se vuoi trovare un posto di lavoro all’altezza dei tempi devi andartene a Mosca”.
Inizia così il racconto della sua breve, ma intensa, odissea lavorativa che, dopo varie esperienze nella sua città, si è felicemente conclusa con l’assunzione, un paio di anni fa, alla “Metropolitana” di Mosca, come tecnico, un ruolo che lui rivendica con orgoglio, in quanto costituisce il coronamento di un sogno giovanile, ovvero poter lavorare in una delle rare aziende moderne, che la Russia di oggi possa vantare (al di fuori del settore dell’industria militare o aerospaziale).
Ad interrompere bruscamente il racconto di Ruslan, che pure mi incuriosisce molto, interviene però il clima da “scampagnata fuori porta” che, con l’affacciarsi delle “prime ombre della sera”, si diffonde d’improvviso in tutto il vagone, preceduto dall’andirivieni sempre più rumoroso dei passeggeri, che si accalcano attorno al samovar per preparare bevande calde che accompagnino i cibi che ciascuno si è portato con sé e che in qualche modo sintetizzano i gusti alimentari di questo popolo. Si va dalla kielbasa, ovvero il salame locale, a vari tipi di formaggio sino agli immancabili cetrioli e alle zuppe liofilizzate (con l’aggiunta del “kepitok”, l’acqua calda del “samovar”, messa gratuitamente a disposizione dei passeggeri). L’atmosfera è quella di una scampagnata tra amici, rumorosa ma senza eccessi di alcun tipo. Perfino la vodka, che pure scorre generosamente, non sembra creare problemi particolari, a parte una certa naturale “effervescenza”.
Ruslan e Vassili sono tra i pochi a non lasciarsi contagiare dal clima di festa.
“Non vi siete portati niente per la cena?” chiedo loro.
“Preferiamo comprarci qualche cosa alla prossima Stazione”, mi risponde Vassili.
Dobbiamo però aspettare una buona mezz’ora, prima che il treno si fermi di nuovo.
“Il treno si ferma in Stazione venti minuti; chi lo desidera può scendere a comprarsi qualcosa”, avverte Tanja, attraversando veloce il corridoio.
Scendo con i miei due compagni sul marciapiede, dove stazionano le “babushke” (le nonne, in Russo) che espongono la loro mercanzia, peraltro limitata a pochi semplici prodotti: focacce con la kielbasa, frutta fresca, qualche succo e naturalmente la vodka. Ripensando ad un vecchio reportage di Alberto Ronchey sulla “Russia del disgelo” degli anni ’60 del secolo scorso, che descrive un’analoga scena sempre da queste parti, mi sembra che niente sia cambiato in quest’angolo della provincia russa, a poche centinaia di chilometri dalla capitale.
Risaliti sul treno, consumiamo senza fretta il nostro pasto frugale per poi seguire l’esempio degli altri passeggeri che, smaltiti rapidamente gli effetti della vodka, si sono preparati per la notte.
Anch’io, dopo questa prima giornata di viaggio, mi lascio andare volentieri nelle braccia di Morfeo, per un sonno che, contrariamente alle mie abitudini, si protrae senza interruzioni per l’intera notte.
Mi risveglio alle prime luci dell’alba, mentre diversi passeggeri si stanno preparando a scendere in una Stazione che dovrebbe essere abbastanza importante (probabilmente quella di Samara). Tra loro c’è anche Victoria, una bambina vivace e simpaticissima, che insieme alla madre ha occupato i due posti laterali, dall’altra parte del corridoio, e con la quale avevo stretto amicizia, appena salito in treno. Nel salutarla, le regalo un modesto “souvenir” (una torre di Pisa in alabastro), al che lei estrae dallo zaino l’edizione russa di “Biancaneve” (“Questa è per Te”, mi dice).
Resto in una sorta di “dormiveglia” per un tempo imprecisato (due o forse tre ore) sino al risveglio definitivo, quando il treno ha ormai ripreso il suo aspetto normale.
Mentre mi guardo attorno, mi torna in mente un passaggio del libro di Vincenzo Russo (Transiberiana”, Sandro Teti Editore, 2017) che contiene una descrizione, dai toni apocalittici, di un vagone della “terza classe” su uno dei tanti treni che percorrono la transiberiana.
“Vi sono disposte – scrive il Russo, a pag. 62 – cuccette sfinestrate e approssimative, prive di qualsiasi artificio che preservi la privacy del sonno e del relax; nessuna tendina, nessuna porta; tutto in bella mostra”.
“Siamo entrati -rincara poi la dose l’autore- in un continente umano che non ha le quadrature dei meridiani e dei paralleli della geografia umana alla quale siamo avvezzi”.
Una frase, quest’ultima, che francamente non mi sento di condividere, posto che i passeggeri di “terza classe” (che ho potuto conoscere sia questa volta che nel mio viaggio di due anni fa) sono una realtà molto articolata sul piano dell’estrazione sociale e culturale (pensionati, operai, impiegati, ma anche studenti) e largamente rappresentativa della società russa, con un solo comun denominatore, ovvero la scarsa consuetudine ai rapporti con gli stranieri, con il logico corollario di una diffusione assai limitata delle lingue straniere, che costituisce una della tante eredità dell’epoca sovietica, quando molte importanti città, della Siberia ma anche della Russia Europea, erano “ off limits” per chiunque fosse in possesso di un passaporto diverso.
Se però si riesce, in qualche modo, ad infrangere la barriera della lingua, ci si rende conto che le “coordinate” del “Pianeta Russia” non sono poi così diverse dalle nostre, affondando entrambe le proprie radici nella cultura europea.
Tra i miei due compagni di viaggio quello che appare più interessato e curioso nei confronti “dell’altra Europa” è Ruslan anche se il suo interesse ha ben poco a che fare con aspetti culturali o storici.
“Dove Ti piacerebbe andare?” gli chiedo.
“In Germania, perché è un Paese all’avanguardia dal punto di vista tecnico, da cui noi russi abbiamo ancora molto da imparare” risponde lui senza esitazioni.
Al contrario Vassili sembra essere rimasto saldamente ancorato agli orizzonti, velatamente autarchici, dei tempi di Breznev e infatti non mostra alcuna curiosità verso tutto ciò che è estraneo al “ruski mir” (il mondo russo).
A risvegliare il suo interesse sono soltanto alcune foto da me scattate l’estate scorsa a Batumi.
“Anch’io sono stato in Georgia, tanti anni fa, quando faceva ancora parte dell’Unione Sovietica”, mi dice, con un sospiro in cui è racchiusa tutta la sua nostalgia per un’epoca ormai definitivamente tramontata.
In tarda mattinata si comincia ad intravvedere la lunga fila di palazzi, di inconfondibile fattura sovietica, della periferia di Kazan e molti passeggeri, compresi i miei due compagni, si preparano a scendere.
Decido di prendere un po’ d’aria anch’io e comprarmi pure un paio di focacce.
“Ci fermiamo solo dieci minuti”, avverte Tanja, per cui ho appena il tempo di fare i miei acquisti e di dare un’occhiata veloce all’elegante facciata della Stazione.
Quando torno al mio posto, lo scenario appare drasticamente mutato.
Siamo rimarsi in una decina, sparsi lungo tutto il vagone, che appare ora desolatamente vuoto.
“Tra quanto arriviamo ad Ekaterinburg?” chiedo a Tanja.
“Tra nove ore e mezzo, poco dopo le otto di sera”, è la sua risposta, che sulle prime suscita in me un senso di ansia.
Ma poi prevale lo spirito di adattamento, per cui mi metto pazientemente ad osservare il paesaggio, che non tarda ad assumere i contorni di quello che, nel nostro immaginario, è il tipico “panorama siberiano”: una fila ininterrotta di betulle, con qualche raro pino e ogni tanto piccoli insediamenti rurali. Siamo ancora nella Russia Europea, ben distanti dalla catena degli Urali, che viene considerata la frontiera tra Europa ed Asia.
In realtà i paesaggi di questo lembo estremo d’Europa sono gli stessi che mi accompagneranno per migliaia di chilometri sino a Kabarovsk, al confine con la Cina. Le ore trascorrono in silenzio, mentre il treno procede lentamente in un habitat naturale del tutto inedito (almeno per me) che, all’inizio, mi trasmette una sensazione di fastidiosa monotonia.
Eppure anche questo pomeriggio solitario (gli occhi incollati al finestrino) si rivela, alla fine, molto istruttivo, non solo in quanto rappresenta il primo contatto con gli orizzonti sconfinati della Siberia, ma soprattutto perché soltanto adesso comincio a “toccare con mano” l’assoluta peculiarità di un viaggio che ribalta completamente i concetti di spazio e di tempo così come siamo abituati a conoscerli noi, in un’epoca nella quale uno spostamento di migliaia di chilometri, da un continente all’altro, si consuma, di solito, nel giro di poche ore.
“Siamo in arrivo ad Ekaterinburg”.
La voce, divenuta per me familiare, di Tanja annuncia che la mia prima “tappa sulla transiberiana” sta per concludersi, esattamente nel luogo in cui finisce l’Europa, all’altezza degli Urali, che però qua presentano un aspetto piuttosto dimesso (“si tratta di poco più che colline, i picchi più alti molto più a nord”, come scrive Luciana Castellina, nel suo diario di viaggio del 2012).
In ogni caso, la consapevolezza di essermi lasciato alle spalle l’Europa, per avventurarmi negli immensi spazi siberiani, provoca, dentro di me, il desiderio di immortalare questo momento.
Appena arrivato a destinazione, mi faccio scattare una foto insieme a Tanja e ad una sua collega e quindi raggiungo velocemente, in taxi, il mio albergo in centro città, per concedermi una notte di assoluto riposo.