Danzica - Aeroporto Lech Walesa -16 Giugno 2013

Varsavia è stata per me -lungo l’arco dei viaggi degli anni ‘70 e anche dopo- fondamentalmente un luogo di passaggio in cui mi fermavo, di solito una mezza giornata, per spezzare la monotonìa del viaggio tra Cracovia e Danzica, che rappresentavano, sia pure per motivi diversi, i principali poli di attrazione delle mie scorribande “oltrecortina”.
Si trattava di una scelta legata anche a gusti personali, che rifletteva, però, la situazione della Polonia di quegli anni.
Allora, la capitale (interamente ricostruita sulle rovine della Varsavia d’anteguerra, rasa al suolo dalle armate di Hitler dopo la sanguinosa repressione dell’insurrezione dell’estate ‘44) era, ovviamente, il centro del potere politico ed economico.
Ma, per cogliere lo spirito del Paese, la sua storia e il suo futuro, conveniva recarsi altrove: a Cracovia, capitale storica del regno di Polonia, sino a tutto il ‘500, che era riuscita a conservare praticamente intatto il proprio inestimabile patrimonio architettonico ed artistico; a Poznan, dinamico centro industriale e commerciale a metà strada tra Varsavia e Berlino, teatro nel ‘56 dei moti insurrezionali che avevano posto fine al decennio di terrore staliniano; soprattutto sul Baltico in quel grande agglomerato urbano, che i polacchi chiamano “Trojmiasto” ovvero “la città dalle tre teste”(Danzica, Sopot e Gdynia), divenuta già nel ‘70, con i moti operai conclusisi con la caduta di Gomulka, la vera locomotiva nella lotta contro il regime, un ruolo, questo, consacrato dieci anni più tardi dagli scioperi dell’agosto ‘80 ai Cantieri Lenin e dalla nascita di Solidarnosc.
Non posso negare che la particolare “geografia” della Polonia comunista (che avevo conosciuto durante le mie peregrinazioni giovanili lungo la Vistola) ha continuato a condizionarmi anche dopo l’estate del 2005, quando mi sono affacciato di nuovo sulla “via dell’ambra”, per riprendere l’espressione usata nel Medioevo dai viaggiatori che si avventuravano in questi paraggi.
Cracovia e Danzica sono rimaste a lungo, per me, le vere capitali di un Paese, saldamente ancorato alle proprie radici, di cui Cracovia conserva gelosamente testimonianze preziose, ma al tempo stesso proiettato verso il futuro, tanto da aver imboccato con decisione, dopo l’“Ottantanove”, anche a costo di grossi sacrifici, la strada di un radicale cambiamento dell’intero sistema economico e sociale.
In effetti, anche dopo il 2005, non ho smesso di fare la spola tra Cracovia e l’area del Baltico attorno a Danzica.
A Varsavia mi fermavo soprattutto per incontrare la mia amica Joanna, divenuta, con gli anni, una preziosa fonte di informazioni e suggerimenti, un canale insostituibile per comprendere l’evoluzione della società polacca.
Qualche giorno fa, praticamente alla vigilia della partenza, mentre mi preparavo al mio primo viaggio da pensionato (senza più l’ossessione di dover rientrare in anticipo, per qualche “grana di lavoro” improvvisa), mi è capitato di leggere, su Internet, un articolo dello “Przekròj” di Varsavia, datato 12 giugno 2013, sui giovani spagnoli, in prevalenza architetti e ingegneri, che, tra il 2012 e i primi mesi di quest’anno, hanno cominciato a dirigersi verso la capitale polacca alla ricerca di un lavoro stabile. Un fenomeno che, solo pochi anni fa, sarebbe stato inimmaginabile, visto che la Polonia, dopo il crollo del comunismo, era considerata fondamentalmente un grosso serbatoio di manodopera qualificata a cui attingere, da parte soprattutto dei grossi gruppi industriali dell’Ovest e delle agenzie di somministrazione internazionali (Manpower, Adecco, ecc.). E, in effetti, a partire dagli anni ‘90, centinaia di migliaia di giovani laureati e diplomati hanno lasciato il Paese alla ricerca di un’occupazione remunerativa, a Londra e Dublino soprattutto, ma anche a Berlino e Parigi.
Nessuno di noi avrebbe potuto immaginare di assistere, nel giro di pochissimi anni, ad una clamorosa e repentina inversione di tendenza.
Certo, sappiamo tutti che la crisi sta ridisegnando la geografia del Pianeta, con uno spostamento del baricentro dell’economia mondiale verso Est, verso le econome emergenti del “BRIC” (l’acronimo coniato una decina di anni fa da un economista per indicare i quattro grandi Paesi emergenti, destinati a svolgere un ruolo di primo piano in questo XXI secolo, ovvero Brasile, Russia, India e Cina).
Ma un conto è parlarne in astratto, ben altro conto è toccarne con mano le conseguenze concrete, nella vita di tutti i giorni, nostra e in particolare dei nostri figli.
La curiosità suscitata in me dall’articolo mi ha spinto ad approfittare della vacanza sulle rive del Baltico, già programmata da tempo, per andare a vedere come la crisi sta ridisegnando il volto delle città polacche e soprattutto di Varsavia, divenuta ormai il vero motore economico, oltre che politico, del Paese (“oggi il vento del cambiamento non soffia più da Danzica, come trent’anni fa, ma da Varsavia”, mi aveva detto Joanna, nell’agosto del 2010).
E così, appena “sbarcato” all’Aeroporto di Danzica, chiamo al telefono Joanna.
Esauriti i convenevoli, arrivo al punto: le chiedo se può ospitarmi per un paio di giorni nella sua casa nel centro di Varsavia.
Ci mettiamo d’accordo per incontrarci mercoledì sera, verso le 19, alla “Zloty Tarasy”, letteralmente “Terrazza d’oro”, appena fuori della Stazione Centrale.


Varsavia 19 Giugno 2013

Il viaggio da Gdynia verso la capitale è stato stavolta particolarmente pesante, non solo per il caldo -decisamente insolito, in questa stagione, almeno sul Baltico- ma soprattutto per la durata, otto ore esatte, causa i ritardi accumulati durante il tragitto.
Per fortuna, a spezzare la monotonia del viaggio ha contribuito la presenza di tre vietnamiti, saliti a Danzica, due giovani e uno più anziano.
Li osservo attentamente per una buona mezz’ora, poi provo ad “attaccare bottone”, offrendo loro dei biscotti comprati in Stazione.
Ma questa vecchia tecnica -rodata ai tempi dei miei viaggi “oltrecortina”- ormai sembra non funzionare più.
Quando, però, il vecchio si allontana, il più giovane ne approfitta per rivolgersi a me.
Mi offre dei chicchi di riso tostato ed attacchiamo a parlare in Inglese.
Sono membri dell’Accademia delle Scienze e della Tecnica di Hanoi e stanno andando a Varsavia per uno scambio con i loro omologhi polacchi. Il vecchio è il vicepresidente dell’Accademia, una sorta di “capo delegazione”.
“Quanto vi fermate?”, chiedo.
“Tre giorni, poi sabato prossimo ripartiamo per Parigi e da là prendiamo l’aereo per Hanoi”.
“Allora visitate anche Parigi?” azzardo io, con apparente ingenuità.
“No, ci fermiamo solo qualche ora all’Aeroporto” risponde, mentre l’espressione del volto, dominata da una giovanile esuberanza, si rabbuia di colpo.
Tra me e me, penso che il mondo del “socialismo reale”, seppur geograficamente ridimensionato, non è poi cambiato di molto rispetto agli anni ‘70: stesse forme di controllo e soprattutto l’ossessiva preoccupazione di tenere il proprio “gregge” al riparo dalle tentazioni dell’Occidente.
Nel frattempo, il “capo delegazione” è rientrato e l’atmosfera torna ad essere quella di prima: un silenzio assordante, spezzato solo da rare parole di una lingua asiatica per me sconosciuta, un suono secco che si perde subito nell’aria di questa calda giornata di inizio estate.
Alla Stazione di “Warszawa Zacodnia” (Varsavia Ovest) il giovane sembra accorgersi di nuovo di me.
“Central Station?” chiede.
“No, next station” rispondo io, altrettanto seccamente.
I tre si avviano verso l’uscita, con tutti i loro pacchi e pacchetti.
Io invece rimango per qualche minuto nello scompartimento ad osservarli mentre attraversano i binari: i due giovani avanti, con le valige e i pacchi, qualche passo indietro il “capo”.
Se non fosse per gli occhi a mandorla, potrebbero sembrare una pattuglia di “vopos” in borghese (la polizia comunista della Germania Est), una scena da “ritorno al futuro”, che mi riporta, per un attimo, ai viaggi di quaranta anni fa nella DDR. In effetti, a pensarci bene, questi vietnamiti del Nord hanno un che di vagamente prussiano, mi fanno venire in mente i gendarmi che marciavano al passo dell’oca di fronte ai Palazzi del Potere a Berlino Est.
Quando, finalmente, mi decido a scendere, vengo subito risucchiato dall’atmosfera festosa che mi circonda: famiglie intere che corrono verso i treni diretti al Nord, alle spiagge del Baltico, o al Sud, a Cracovia e nelle località montane dei Tatra, Zakopane in testa.
Joanna mi viene incontro; cominciava ad essere un po’ preoccupata o forse si aspettava una mia telefonata.
Per farmi perdonare, le racconto di Orlowo, la spiaggia di Gdynia verso Sopot, che lei ha frequentato sin dall’infanzia, quando vi trascorreva buona parte dell’estate, ospite di Renata, una vecchia amica di famiglia che ho fatto a tempo a conoscere anch’io.
In pochi minuti, in autobus, raggiungiamo la Piazza del Castello (“Plac Zamkowy”) e da lì, attraverso la città vecchia, entriamo a “Nowy Miasto” (chiamata appunto “città nuova”, perché risale al Sei/Settecento).
Le strade sono illuminate e piene di giovani; c’è anche qualche turista con “gli occhi a mandorla”, giapponese, probabilmente.
Ci fermiamo nel “Rynek Nowego Miasta”, la piazza del mercato della città nuova, dominata dal bianco profilo della Chiesa delle Sacramentine, uno dei gioielli del barocco polacco.
Joanna mi racconta di quando, da bambina, ci veniva col nonno, in primavera, e si metteva a giocare a pallone verso il muro del Convento delle suore di clausura.
Dal canto mio, le parlo delle scorribande estive in Casentino sulla “giardinetta” di nonno Guido, il nonno paterno.
I nostri ricordi giovanili (di due giovani cresciuti negli stessi anni, ma nei due opposti campi in cui all’epoca era divisa la nostra Europa “il campo socialista e il campo capitalista”, secondo la terminologia ufficiale del vecchio regime) si sovrappongono, quasi a sottolineare l’appartenenza allo stesso mondo, sia pure artificialmente diviso, un tempo non lontano, dalla “cortina di ferro”.
Entriamo nel ristorante “Pod Samsonem” (letteralmente “sotto Sansone”), uno dei locali ebrei più popolari della capitale. Anche stavolta è affollato da gruppi chiassosi di giovani.
Mentre aspettiamo i piatti che abbiamo appena ordinato (salmone della Vistola per me e trota dei laghi Masuri per lei) faccio leggere a Joanna l’articolo sui giovani immigrati dal Sud Europa.
Lei si sofferma sulla parte finale dell’articolo.
“Nella sezione risorse umane delle aziende polacche -legge- c’è stupore: montagne di lettere di candidatura, provenienti da europei occidentali, continuano ad accumularsi sulla scrivania”.
I candidati -in maggioranza spagnoli, ma anche greci, portoghesi ed italiani- “sono giovani con scarsa esperienza, ma -conclude l’articolo- con un alto livello di istruzione”.
Persino Joanna -che è sempre stata critica verso certi eccessi del nuovo corso- ammette di essere stupita dal ritmo vorticoso dei cambiamenti in atto e rievoca i primi anni ‘70, quando -giovane architetto in servizio all’Ufficio Tecnico del Ministero della Sanità- aspettava con impazienza l’estate per poter fare un viaggio di pochi giorni, una settimana al massimo.
“Allora -confessa sorridendo- era l’Italia a rappresentare ai miei occhi una società dinamica e aperta al futuro; oggi invece mi basta venire qua in centro per cogliere quella stessa vivacità ed allegria che da giovane ero costretta a cercare all’estero”.
Finita la cena, chiedo a Joanna di poter tornare verso casa, in quanto -avendo ormai superato abbondantemente i”trent’anni per gamba”- comincio ad avvertire la stanchezza del viaggio; non posso fare a meno di pensare, con un pizzico di nostalgia, agli anni in cui mi facevo tranquillamente due notti in treno per arrivare sin qua.


Varsavia 20 Giugno 2013

Mi sveglio quasi alle nove del mattino.
La mia amica è fuori col cane ma mi ha lasciato in cucina una colazione abbondante, come si usa da queste parti: gli immancabili “ogurki”, i cetrioli, accompagnati dalla kielbasa, la salsiccia polacca, burro e marmellata ai frutti di bosco e, per finire, una bella zuppa fredda.
Quando Joanna rientra, mi trova alle prese con la “zuppa fredda alla lituana”, un miscuglio di verdure, latte ed uova, che qua va molto per tutti i pasti, dalla colazione alla cena.
Mi scatta una foto. “La mando in Italia”.
“Brava -ribatto- così mi tolgono la cittadinanza e divento apolide”.
“Ecco -mi risponde, con quel suo sorriso impertinente- apolide, né italiano né polacco, una definizione che ti sta proprio a pennello”.
Mi sforzo di sorridere, anche se provo un certo fastidio per la sua battuta, probabilmente perché, senza neanche accorgersene, ha colto nel segno.
Forse per superare il momento di gelo, creatosi d’improvviso tra noi, lei accende la radio, sintonizzandosi sul notiziario locale.
Stanno parlando del sindaco della capitale -Hanna Waltz Growieicz, esponente di primo piano di “Piattaforma Civica” il partito al potere- che, proprio in queste settimane, è al centro di accese polemiche, per certe scelte poco felici nell’organizzazione dei trasporti pubblici e soprattutto per i ritardi nei grandi lavori sbandierati al momento dell’elezione (l’estensione della rete della metropolitana e altre opere di ammodernamento, che dovrebbero essere pronte prima dell’estate 2014, quando la città ricorderà i settant’anni dalla tragica insurrezione antinazista scoppiata il 2 agosto ‘44).
Se penso a quel che succede da noi, mi viene da sorridere di fronte a queste innocue “baruffe varsaviesi”.
Joanna deve uscire per una visita specialistica e io ne approfitto per ritagliarmi una giornata per i fatti miei “a zonzo” per Varsavia.
Prima tappa la “Kinoteka” che occupa un’ala a pian terreno del “Palazzo della Cultura”, l’immenso edificio in pieno centro che ricorda, ai turisti e ai cittadini della capitale, gli anni del regime comunista.
Stamattina proiettano un cortometraggio in 3D, intitolato “Varsavia 1935”, in cui, utilizzando le più moderne tecniche grafiche, viene ricostruita, sulla base di foto e filmati d’epoca, la Varsavia d’anteguerra.
A colpirmi sono soprattutto le immagini, piene di vita, del quartiere ebraico, abitato da una comunità che all’epoca rappresentava quasi il 40% dell’intera popolazione della città e a cui appartenevano molti esponenti illustri della borghesia intellettuale e commerciale del Paese.
Uscito dal cinema, mi dirigo verso “Aleje Jerozolomiskie” che lambiva, un tempo, il Ghetto e il cui none (“Viale di Gerusalemme” in Italiano) ricorda uno dei primi insediamenti ebraici (chiamato appunto “Nuova Gerusalemme”) costruito nel 1774 alla periferia della Varsavia del ‘700.
Niente -a parte il nome- ricorda però -in quella che è oggi una delle principali e più trafficate arterie del centro cittadino- la storica presenza dei figli di Davide.
Mi dirigo allora verso Ulica Prosta, che si trovava qualche centinaio di metri fuori del muro costruito nel novembre 1940 per sbarrare ogni possibile via di fuga al circa mezzo milione di ebrei rinchiusi nel Ghetto. A metà di questa via era situato il tombino attraverso il quale, nel maggio del ‘43, alcune decine di eroici protagonisti della disperata rivolta del Ghetto riuscirono a sottrarsi al massacro. In quel punto esatto, si erge oggi un monumento di estrema semplicità ma di grande forza evocativa: è una specie di tubo metallico a cui sono applicate delle mani, a simboleggiare -leggo nella mia guida, in Spagnolo, alla “Varsavia Judaica”- la discesa nel canale fognario, unica possibilità di salvezza.
Cinque minuti di camminata veloce ed eccomi a Ulica Sienna, davanti all’unico frammento superstite del muro del Ghetto. Mi fermo un quarto d’ora buono e mi sforzo di immaginare come doveva essere la vita, settant’anni fa, oltre quel muro. Mi tornano in mente alcune pagine di un diario, sulla vita quotidiana nel Ghetto di Varsavia, che mi è stato prestato, un paio di anni fa, da un caro amico di Sarzana.
A colpirmi allora, nel leggere quelle pagine, era stato soprattutto il tentativo disperato di continuare, per quanto possibile, una vita “normale”, un tentativo che era andato avanti per oltre due anni, sino alla fine del ‘42, quando le deportazioni in massa e le notizie sul campo di Treblinka, diffuse da ferrovieri vicini alla resistenza, avevano spazzato via ogni possibile dubbio sulle reali intenzioni dei carnefici.
Di qui la decisione di insorgere. Visto che il destino era comunque segnato, tanto valeva morire con le armi in pugno.
Nella parte “polacca” della città era già molto attiva l’“Armia Krajowa” l’esercito nazionale fedele al Governo in esilio a Londra. Eppure i capi della resistenza si erano ben guardati dal prestare aiuto agli ebrei insorti contro il comune nemico, a riprova di quanto profondo fosse (almeno a Varsavia e nella Polonia ex russa) il solco che divideva gli ebrei dai polacchi.
Mi avvio lentamente all’interno di quello che, sino a settant’anni fa, era il Ghetto e che oggi è parte integrante del cuore ultramoderno della capitale.
Faccio fatica a trovare un segno tangibile del vecchio Ghetto ma, alla fine, grazie alla mia “guida”, riesco a raggiungere Ulica Prozna, la sola via del quartiere ebraico ad essersi miracolosamente salvata dalla sistematica opera di distruzione attuata, con teutonica precisione, dalla Wehrmacht, dopo la resa degli insorti. Percorro con grande lentezza la strada, fiancheggiata da vecchi palazzi, nel tentativo di assaporare l’atmosfera della città ebrea dei primi del ‘900. Ma, per quanti sforzi faccia, non riesco a calarmi nel clima di un mondo sradicato con una tale violenza che si è cercato di eliminarne ogni minima traccia. Certo la Storia dell’Umanità è costellata in tutte le epoche da episodi di sopraffazione e di eliminazione violenta di popoli interi. Ma ciò che caratterizza i genocidi del Novecento (prima quello degli armeni, realizzato dai Giovani Turchi nel ‘15/16 con la complicità dei loro alleati tedeschi, e poi, un quarto di secolo dopo, il genocidio degli ebrei, attuato in prima persona dai “civilissimi” tedeschi agli ordini del “Fuhrer”) consiste proprio nel tentativo di eliminare anche la memoria del popolo o della comunità vittima dello sterminio. Nel caso dei tedeschi, la sconfitta li ha costretti a riconoscere i crimini commessi, in nome del Popolo tedesco, dal regime nazista. Per i turchi, invece, la situazione è, se possibile, ancora peggiore, dal momento che il Governo di Ankara si ostina ancora oggi, a quasi un secolo dal massacro, a negare la realtà storica e a perseguitare addirittura, in base ad una legge mai abrogata, quegli intellettuali che osano ricordare il genocidio.
Decido di mettere da parte, per un momento, le mie meditazioni sugli armeni (ripromettendomi di realizzare, appena possibile, il sogno, a lungo coltivato e sempre rinviato per un motivo o per l’altro, di un viaggio alla scoperta di quel popolo coraggioso e sfortunato) per concentrarmi sul destino delle comunità ebraiche che, sino a un tempo non lontano, hanno costituito una componente importante della popolazione urbana non solo di Varsavia e della Polonia ma di tutta l’Europa Orientale, da Praga a Budapest, a Kiev e oltre, fin nel cuore della Russia. Probabilmente -penso- per rivivere l’atmosfera particolarissima delle comunità “yddish” di inizio Novecento, dovrei tornare qua a settembre, quando, in questa via e nella vicina Piazza Grzybowski, si tiene il Festival della Cultura Ebraica o, meglio ancora, andarmene a Cracovia, a Kazimierz, il grande quartiere ebraico, unico angolo, in tutta l’Europa dell’Est, ad aver conservato, nei propri monumenti e nell’architettura complessiva, il profilo tipico dei sobborghi ebraici dell’Europa Orientale prebellica.
Proprio nel cuore di Kazimierz, in Plac Miodowa, accanto ai ristoranti che offrono al turista i piatti della tradizionale cucina ebraica dell’Est Europa, c’è un piccolo albergo, dall’aria dimessa e un po’ cupa, che ospita normalmente i figli e i nipoti dei sopravvissuti della “shoà” venuti sin qua “per non dimenticare”.
La mia innata curiosità mi ha spinto, tre anni fa, a trascorrervi una notte -insieme ad un gruppo di figli di sopravvissuti, proveniente da Israele- ed è stata un’esperienza emotivamente molto intensa, che mi ha consentito di “sentire” il dramma della “shoà” assai più che attraverso la sola visita al campo di sterminio di Auswichtz.
Qua a Varsavia, però, posti come l’alberghetto di Cracovia non credo ce ne siano.
Mi decido allora a chiudere il mio personale “pellegrinaggio” sulle tracce di un popolo sradicato dalla terra, in cui ha vissuto per secoli, con una breve visita al Museo Nazionale della Storia degli Ebrei Polacchi, inaugurato nell’aprile di quest’anno, in occasione delle celebrazioni ufficiali del 70° anniversario della rivolta del Ghetto.
Il Museo si trova nella via intitolata a Mordechai Anielewitz, uno dei capi più coraggiosi della rivolta.
Il profilo avveniristico dell’edificio si erge come un gigante solitario nel bel mezzo di un parco cittadino, in cui scorrazzano nugoli di ragazzini e bambini, mentre le mamme chiacchierano tranquille a poche decine di metri di distanza.
Il tutto dà l’idea di un’atmosfera rarefatta e serena, in stridente contrasto con la drammaticità delle vicende storiche a cui il nuovo Museo è dedicato.
Mi avvio verso la cassa dove una solerte impiegata mi informa che, al momento, è visibile solo una mostra provvisoria. Ci vorranno ancora mesi -mi avverte- prima che il Museo possa funzionare a pieno regime.
Decido di entrare comunque e pago il biglietto.
L’esposizione contiene lettere, foto e filmati girati, negli anni ‘30, da ebrei americani venuti a visitare la terra da cui, decenni prima, erano partiti i loro padri.
È evidente l’interesse -da parte di chi, ottant’anni fa, ha scattato le foto e girato quei filmati- per le antiche tradizioni dell’ebraismo est-europeo.
E infatti prevalgono le immagini che ci riportano alla cultura yddish: anziani in abiti tradizionali, cerimonie religiose, ecc.
Non mancano però testimonianze concrete della partecipazione della comunità ebraica alla vita economica e culturale del Paese (come ad es. la foto che ritrae un grosso industriale tessile di Lodz, di fronte alla propria azienda).
Mentre mi lascio alle spalle il Museo (ripromettendomi di tornarci tra un anno, quando tutto il materiale qui raccolto sarà finalmente a disposizione del pubblico) penso che gli ebrei americani, a cui si devono i filmati e le foto, non avrebbero mai potuto immaginare che quelle loro immagini sarebbero diventate le ultime testimonianze di un mondo destinato ad essere inghiottito, di lì a poco, nella fauci voraci dell’olocausto.
Guardo l’orologio e mi accorgo di essere in ritardo rispetto all’appuntamento con la mia amica, per cui prendo al volo un taxi che, in cinque minuti, mi porta in Piazza tre Croci, dove Joanna mi sta già aspettando. Per fortuna al Teatro “Buffo” (un nome italiano che risale, a quanto mi dice lei, al periodo dell’immediato dopoguerra) riesco a trovare ancora due biglietti in platea, per lo spettacolo che sta per iniziare.
Rimango sorpreso nel constatare che la sala è gremita da un pubblico composto in larga parte da quarantenni o trentenni. Il che può apparire stupefacente se si considera che si tratta di uno spettacolo di cabaret dedicato agli anni del vecchio regime comunista.
La regia è di Janusz Josefowicz, attore teatrale e regista di cui Joanna mi ha parlato con entusiasmo. Sono veramente curioso di vedere come sarà rappresentato, sulla scena, quel periodo controverso della storia.
Sin dalle prime battute, emerge una costruzione sapiente ed agile al tempo stesso, in cui si alternano spezzoni dei cinegiornali d’epoca a pezzi di cabaret e alle canzoni che riportano lo spettatore alle diverse fasi di vita della “PRL”, la repubblica popolare polacca (il sottotitolo recita infatti “la vita della PRL attraverso le canzoni”).
Nel giro di un’ora e mezzo viene passato in rassegna il mezzo secolo, o poco meno, di vita del regime comunista, dall’immediato dopoguerra (operai stakanowisti, premiati tra lo sventolìo delle bandiere rosse e i ritratti di Stalin, con la canzone “ukochany Kraj”, popolare motivo di quel periodo, come sottofondo musicale) sino agli anni del “colpo di stato militare”, che si aprono con l’apparizione televisiva, il 13 dicembre ‘81, del generale Jaruzelsky e si chiudono con le immagini dell’accordo del maggio ‘89, preludio al ritorno della democrazia senza aggettivi (dopo 45 anni di “democrazia popolare”).
La mia limitata conoscenza della lingua non mi consente di cogliere tutte le sfumature, ma le reazioni del pubblico testimoniano il pieno gradimento da parte degli spettatori.
Applausi scroscianti riscuote lo sketch dedicato ad uno degli aspetti tipici di quegli anni, in Polonia e negli altri Paesi dell’Est: scaffali dei negozi vuoti e file interminabili per accaparrarsi le poche merci disponibili. I giovani, soprattutto, ridono divertiti, probabilmente pensando a quanta strada ha percorso il loro Paese in meno di un quarto di secolo. Joanna, invece, sembra combattuta tra sentimenti contrastanti, tra i quali, con tutta probabilità, prevale la nostalgia per gli anni della propria giovinezza.
Cogliendo questo suo stato d’animo, la invito a cena al Ristorante “Lotos”, uno dei pochi, in centro città, ad essere rimasto fedele allo stile sobrio degli anni’70.
C’eravamo già stati tre anni fa ma, allora, il locale appariva desolatamente vuoto. Stasera, invece, è stranamente affollato (coppie eleganti di quarantenni, soprattutto, e qualche gruppetto di giovani).
“Non ti devi stupire -mi dice Joanna -l’ultima moda, qua a Varsavia, è quella di riscoprire locali e canzoni degli anni ‘70”.
“Una manifestazione nostalgica?”chiedo.
“Assolutamente no, anzi nasce dalla consapevolezza dei passi compiuti in questi anni, per cui i giovani sono portati a guardare con simpatìa al mondo dei loro genitori. In fondo è lo stesso motivo che li spinge ad assistere divertiti allo spettacolo di Josefowicz sugli anni del comunismo”.
“E tu -insisto- provi nostalgìa per quel periodo?”.
“Certo non per il regime di allora, caso mai per gli anni della mia giovinezza”.
Così dicendo,, si mette a rievocare gli anni dell’università, i vecchi amici di quel periodo, e poi, dopo la laurea in architettura, il lavoro all’Ufficio Tecnico del Ministero della Sanità, ricco di soddisfazioni professionali, che non le impediva, però, di continuare a coltivare il proprio interesse per il cinema, in particolare per il cinema italiano del dopoguerra, dal neorealismo a Fellini.
Da qui era scaturita la decisione di imparare la nostra lingua, frequentando un corso presso l’Istituto Italiano di Cultura e poi uno stage all’Università per stranieri, a Perugia, il primo di una lunga serie di viaggi nella Penisola.
Due percorsi -il mio e quello di Joanna- paralleli, seppur non identici, dai quali emerge un tratto comune che si può riassumere con due semplici parole: curiosità ed onestà intellettuale.
Forse sta proprio qua il segreto di un’amicizia che dura ormai da ventisette anni, penso tra me e me, mentre, a piedi, percorriamo le poche centinaia di metri che separano il ristorante da casa sua.


Varsavia 21 Giugno 2013

Ultima giornata del mio viaggio, verso le tredici ho infatti l’aereo per Orio al Serio.
Mi alzo presto; Joanna è già in cucina ad ascoltare il notiziario.
“Ti ho preparato il caffè” dice, indicando il tavolo su cui campeggia una bella brocca (di quelle che un tempo usavano anche da noi) in mezzo alle fettine di pane nero, alle confezioni di marmellata, ai piattini colmi di pomodori e “ogurki”
“Peccato, avrei preferito una supa pomidorowa visto che di caffè ne bevo già tanto in Italia e certamente migliore di questo”, mi vien da pensare anche se tengo per me queste riflessioni mattutine, per una forma di educazione (mi hanno insegnato che “a caval donato non si guarda in bocca”) e poi per non disturbare Joanna che pare tutta presa dal suo notiziario. Stanno commentando l’esito dell’iniziativa, promossa mesi fa dal Sindaco di Varsavia, per incoraggiare la lettura da parte dei pendolari.
A questo scopo, il Comune -sugli autobus diretti verso l’estrema periferia, con tempi di percorrenza di un’ora e più, nelle fasce di punta- aveva sistemato diversi libri di autori polacchi, più o meno famosi, a disposizione dei passeggeri.
L’iniziativa non sembra però aver avuto successo o meglio ne ha avuto anche troppo, nel senso che i passeggeri hanno preso l’abitudine di portarsi a casa i libri, esaurendo in breve tempo “le scorte”.
“Un’ottima iniziativa, voglio proporla a Trenitalia”.
“Pensi che da voi il risultato sarebbe diverso?”.
“Temo di sì, purtroppo, penso che, da noi, i libri rimarrebbero al loro posto e non perché il senso civico, a Milano o a Napoli, sia più forte che a Varsavia, ma per il semplice motivo che in Italia non legge più nessuno, a parte qualche vecchio come me”.
“Ma allora perché continui a scrivere?” se ne esce lei, risfoderando il suo sorriso impertinente.
“Bella domanda, probabilmente per me stesso, perché sento il bisogno di esprimere le mie emozioni”.
Terminato il nostro duetto scherzoso, Joanna mi accompagna alla fermata dell’autobus, accanto al ristorante dove abbiamo cenato ieri sera.
Ho deciso di dedicare il paio d’ore che ancora mi restano ad una passeggiata solitaria a Novy Swiat, la strada elegante che collega la città vecchia al cuore moderno della capitale.
Su questa via si trovano le pasticcerie più rinomate, i ristoranti frequentati dai turisti, le filiali commerciali delle grandi marche italiane e francesi, ma anche sedi universitarie ed importanti edifici pubblici.
La mia passeggiata ha però uno scopo preciso, e cioè individuare i caffè (“kawiarnia” in polacco) che mettono a disposizione dei clienti libri, da leggere mentre si sorseggia un tè o un caffè.
Me ne aveva parlato ieri sera la mia amica e mi era parsa un’ottima idea; come sempre, però, voglio verificare di persona come funziona realmente l’iniziativa.
Giro, invano, per una buona mezz’ora da un caffè all’altro, sin quando arrivo, esattamente a metà strada, ad una grossa libreria.
Annessa alla libreria c’è una “kawiarnia” e, sull’ingresso, un cartello che informa i clienti della possibilità di consultare liberamente riviste e libri.
Non c’è molta gente (appena un paio di giovani, intenti a leggere delle riviste) ma probabilmente è ancora presto ; Joanna mi ha detto che qua i locali cominciano ad animarsi verso il tardo pomeriggio.
Ordino un succo di frutta e dallo scaffale prendo anch’io una rivista, in polacco, “Polytika” (un nome che mi ricorda una pubblicazione famosa degli anni del vecchio regime).
Sulla copertina compare una foto del premier, Donald Tusk, a cui la rivista dedica una lunga intervista.
Provo, con grande fatica, a capirci qualcosa ma devo accontentarmi di decifrare le didascalìe delle varie foto che corredano l’articolo.
Intanto l’orologio dietro il bancone segna le undici; mi rendo conto che è arrivata l’ora di avviarmi alla fermata dell’autobus che mi condurrà all’aeroporto.
Dopo una quarantina di minuti sono nel salone delle partenze, pronto ad iniziare la lunga e noiosa trafila di controlli, che stavolta si rivela più complicata del solito, forse perché siamo all’inizio della stagione estiva.
Quando, finalmente, arrivo al “gate” si è già formata una lunga fila, in prevalenza polacchi ma anche diversi turisti italiani che rientrano a casa, dopo una breve gita. C’è perfino un milanese che, da un paio d’anni, lavora a Varsavia ma non sembra affatto appartenere all’esercito di giovani del Sud Europa che -secondo l’articolo pubblicato una decina di giorni fa su “Przekròj”- si appresterebbe ad “invadere” la capitale polacca. Ha piuttosto l’aria del manager rampante, probabilmente è il dirigente di una delle tante imprese italiane che ha delocalizzato la produzione ad est della vecchia “cortina”.
Inizia l’ultimo controllo, prima di salire sull’aereo, e i passeggeri si preparano, carta di imbarco e documento alla mano.
Quando arriva il mio turno, mi trovo al fianco una bella ragazza, una trentina d’anni o giù di lì, capelli corvini e un taglio degli occhi vagamente mediorientale, forse una libanese o, più probabilmente, un’ebrea israeliana di origini polacche (magari, penso, la discendente di quegli ebrei spagnoli che, nel ‘500, per non rinnegare la propria fede, hanno trovato riparo in Polonia).
Mi siedo accanto a lei e -superata la fase del decollo, che suscita sempre, in me, una certa apprensione- cominciamo a conversare amabilmente in polacco.
Diana -questo il suo nome- lavora a Varsavia come impiegata amministrativa all’Università e sta andando a Bergamo a trovare una sua amica che si è appena sposata. Aggiunge che le piacerebbe molto imparare la nostra lingua. Colgo la palla al balzo per regalarle il mio ultimo libro. “Così -le dico- quando vorrai, ti potrai esercitare a leggere in Italiano”.
Sfoglia, incuriosita, le pagine e mi sottopone ad un fuoco serrato di domande sul contenuto del libro, sulle mie precedenti esperienze di scrittore, e così via.
In breve si crea tra noi un minimo di confidenza.
“Vivo in Polonia da nove anni ma non sono polacca”, mi sussurra alla fine, mentre l’aereo si appresta ad atterrare ad Orio al Serio.
“Da dove vieni?” le chiedo, convinto di trovarmi di fronte ad un’ebrea israeliana.
“Dalla capitale dell’Armenia, Yerevan”.
Smaltita la sorpresa iniziale, le manifesto tutta la mia simpatia per la storia travagliata del suo popolo.
“Mi piacerebbe -azzardo- scrivere qualcosa sull’Armenia di oggi, ma avrei bisogno del tuo aiuto”.
“Perchè no? Ad agosto me ne andrò in vacanza dai miei a Yerevan e, se riesci ad organizzarti, ci possiamo incontrare là”.
Ci scambiamo gli indirizzi e-mail e la saluto con un caloroso “arrivederci a Yerevan”.